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Salò e l'Italia nella guerra civile
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Escrito por Mario Ragionieri   

 

 

 

Presentiamo il nuovo volume di Mario Ragionieri:

Salò e l'Italia nella guerra civile

edito da Ibiskos.



Cliccando qui è possibile scaricare il capitolo

"LA LOTTA CONTRO I PARTIGIANI SULLA LINEA GOTICA"

in formato pdf (necessita di Adobe Acrobat Reader).

 

Dalla prefazione del volume scritta da Paolo Buchignani

 

Il periodo compreso tra l’8 settembre 1943 e il 25 aprile 1945 è uno dei più importanti, drammatici e complessi della nostra storia recente. Un biennio denso di avvenimenti, ribollente di passioni, profondamente segnato da errori e da orrori, da meschinità e da eroismi: la “morte della patria” con la fuga del re e di Badoglio, il dissolvimento dell’esercito, il “tutti a casa”; la Repubblica sociale, espressione d’un fascismo redivivo, grottesco e tragico, alleato di un Germania nazista declinante e feroce; la rinascita della patria (una patria per tutti, non solo per i fascisti, com’era stato nel ventennio mussoliniano) grazie alla Resistenza, che pone le basi del patto costituzionale e della nuova Italia repubblicana e democratica. E poi gli anglo-americani, che avanzano in questo paese diviso, stremato, affamato, esposto alle rappresaglie nazifasciste. Un paese, un popolo che certo si augura la sconfitta dei saloini e degli invasori tedeschi, ma che non si schiera apertamente coi partigiani, anche se spesso li aiuta. Partigiani e fascisti di Salò restano due minoranze che si combattono in una cruenta guerra civile: sì, guerra civile, perché la Resistenza (come ha autorevolmente dimostrato Claudio Pavone) e come ormai quasi più nessuno nega, non fu soltanto una guerra di Liberazione, ma, appunto, anche una guerra civile tra italiani schierati su fronti opposti. Bisogna aggiungere che, nelle intenzioni di una parte della sinistra comunista, essa fu anche una guerra di classe, una lotta armata per conquistare il potere e realizzare il comunismo, anche se la linea togliattiana del Pci ebbe buon gioco nell’accantonare questa opzione, perseguita da un’altra componente del partito.
Per troppo tempo, specie negli anni della guerra fredda, una lettura prevalentemente ideologica di questi avvenimenti ne ha occultato la complessità, ha lasciato in ombra episodi scomodi, motivazioni, scelte degli uni e degli altri tali da mettere in crisi schemi consolidati, interpretazioni spesso di comodo, finalizzate ad un uso politico della storia. Oggi, a distanza di sessant’anni, fermo restando il giudizio di valore (in questa guerra civile esisteva una parte giusta, quella della Resistenza, che si batteva per la libertà e per la fine della dittatura, e una parte sbagliata, quella del fascismo di Salò alleato di Hitler), è doveroso (non per giustificare, ma per capire) indagare le ragioni e i torti di tutti senza omissioni e senza censure. E’ opportuno, per esempio, inquadrare storicamente la vicenda di una generazione educata dal totalitarismo fascista, adescata dai suoi miti e dal culto del “duce”. Una generazione che l’8 settembre s’è trovata ad operare una scelta assai difficile, talvolta drammatica: andare a Salò o salire in montagna coi partigiani? Spesso la scelta (si veda, per esempio il romanzo di Italo Calvino Il sentiero dei nidi di ragno) è stata casuale, anche perché, non di rado, le idee e i miti che animavano fascisti e partigiani erano analoghi: il mito della rivoluzione sociale, il populismo, il Risorgimento mazziniano e garibaldino (Garibaldi e Mazzini erano emblemi sia dei rivoluzionari neri saloini che di quelli rossi: vedi le comuniste Brigate Garibaldi).
Ebbene, questo volume di Mario Ragionieri sfugge agli schematismi ideologici per orientarsi verso un approccio decisamente storico. Un approccio, direi, di tipo defeliciano, attestato dall’epigrafe che lo introduce. Più che a voler dimostrare una particolare tesi, l’autore sembra orientato soprattutto a fornire un quadro il più possibile completo ed obiettivo di una vicenda tanto ostica e complessa, irta di insidie, suscitatrice di polemiche. Riesce in larga misura nel suo intento grazie ad una solida preparazione fondata su una molteplicità di importanti e diversificate letture. Il risultato - apprezzabile e utile - è un’opera divulgativa e di sintesi, ma, nello stesso tempo, molto dettagliata e documentata.

Dalla prefazione di Enrico Nistri


Ormai da svariati anni Mario Ragionieri persegue un sua personale, puntigliosa, ostinata sfida con la storia contemporanea e, in particolare, con i grandi temi etico-politici da cui il dibattito ideologico è ancor oggi condizionato. Questo confronto, cominciato nel 2001 con la pubblicazione di un volume dedicato all’8 settembre, proseguito due anni dopo con l’uscita del saggio Dalla democrazia al regime , sulla nascita e il consolidamento del fascismo al potere, si è dilatato nel 2004 dal contesto italiano agli scacchieri della grande politica internazionale con un’opera dedicata al patto Ribbentrop-Molotov fra Germania nazionalsocialista e Russia sovietica. Ora Ragionieri torna alla fonte d’ispirazione primaria della sua opera con questo imponente volume intitolato Salò e l’Italia nella guerra civile, che si può considerare una prosecuzione della sua opera prima, dedicata al dramma dell’armistizio.
Rispetto alle precedenti pubblicazioni, che, nonostante una diffusione in prevalenza locale, hanno riscosso un meritato successo, questo ampio saggio su una delle pagine più drammatiche e controverse della nostra storia nazionale non presenta novità di rilievo sotto il profilo sia dell’ispirazione, sia dei criteri metodologici.
Sul piano dell’ispirazione, Ragionieri, che non è uno storico di professione, ma un appassionato cultore della materia, con ampie competenze che raggiungono livelli d’eccellenza nella storia militare, scrive in prevalenza sotto l’impulso di una spinta di carattere etico. È un uomo – un cittadino, verrebbe fatto di dire, senza annettere a questo termine alcuna accezione giacobina – che, mosso da un impegno, appunto, civile, vuole rendersi conto dei motivi per cui in Italia non è ancora possibile costruire una memoria condivisa, ragionare senza paraocchi ideologici su eventi i cui protagonisti sono ormai in gran parte scomparsi dalla scena politica, riconoscere le ragioni di vinti e di vincitori senza essere accusati di “revisionismo”: termine di cui – con la spregiudicatezza ideologica che la contraddistingue – la sinistra è riuscita a fare nel corso degli ultimi dieci anni un epiteto infamante, da cui anche una certa destra post-fascista avverte l’esigenza di prendere le distanze, per pochezza culturale e mancanza di coraggio politico. Il fatto che Ragionieri sia nato e si sia formato negli anni Settanta e Ottanta in un ambiente, come quello empolese, in cui l’egemonia culturale marxista è stata più pervasiva che altrove, ha con ogni probabilità influito su questa attitudine, inducendolo tra l’altro a porsi un quesito che ricorre con giusta insistenza nelle sue opere: perché i delitti del comunismo sono stati relativizzati, storicizzati, in certi (anzi in troppi) casi giustificati dalla storiografia dominante, mentre un atteggiamento di segno opposto è finito per prevalere nei confronti dei crimini fascisti? È un interrogativo che può suonare retorico, ma che in Ragionieri, spirito intimamente onesto e quasi naïf nella sua fiducia nell’altrui onestà intellettuale, è invece del tutto spontaneo.
Sotto il profilo metodologico, il volume si configura quanto i precedenti come una vasta sintesi della letteratura critica sull’argomento, integrata da giudizi personali, ma non arbitrari, dell’autore, arricchita da ricche citazioni di testi e documenti, e ispirata nelle sue grandi linee al magistero scientifico ed etico di Renzo De Felice. Non a caso una pertinente citazione dello studioso reatino sul naturale revisionismo dello storico campeggia in epigrafe al volume.
È una scelta coraggiosa, che si presta per altro a facili obiezioni: su temi come l’avvento del fascismo, l’armistizio, il patto Ribbentrop-Molotov, e naturalmente la Repubblica Sociale Italiana esiste ormai una bibliografia sterminata; c’è un’abbondanza – e persino una sovrabbondanza – di fonti primarie e secondarie tale da far tremare le vene anche a professori universitari pagati pressoché esclusivamente per studiare, fare ricerca ed eventualmente, bontà loro, mettere al corrente i discepoli dei risultati delle loro indagini e delle loro riflessioni. La sola “dongologia”, se non fosse praticata in prevalenza da giornalisti o talentuosi dilettanti, potrebbe assurgere al rango di una branca della contemporaneistica, con proprie cattedre universitarie; e non è detto che prima o poi non succeda, vista la tendenza degli atenei alla moltiplicazione degli insegnamenti. La stessa vicenda scientifica e umana di Renzo De Felice, scomparso prima di riuscire a concludere la sua monumentale biografia di Mussolini, divenuta una sterminata storia del fascismo, dovrebbe costituire un monito per tutti.
Eppure, nonostante o forse proprio per la sua temerarietà, l’impegno di Ragionieri, anche e soprattutto in quest’ultima opera, si è rivelato fecondo. I motivi sono essenzialmente due, uno comune all’intera saggistica di questo autore, l’altro specifico di questo libro. Sotto il primo profilo, l’autore beneficia, nell’accostarsi alla materia delle sue opere, del vantaggio di chi si pone dinanzi a un fenomeno senza essere condizionato da una stratificazione ideologica che finisce per condizionarne l’interpretazione. Autodidatta di talento, guarda in molti casi agli eventi con sguardo fresco, per certi aspetti ingenuo; dilettante, nell’accezione etimologica del termine, trae piacere - diletto, appunto – dalla lettura delle fonti e riesce a comunicarlo al lettore. Questa assenza di pregiudizi lo induce a porsi alcune domande “politicamente scorrette” – come quella, appunto, sui crimini del comunismo – che la maggior parte degli storici con una formazione universitaria non si pongono o eludono con risposte precostituite.
L’altro motivo, di carattere specifico, risiede nel fatto che all’interno della pur vastissima bibliografia sulla Repubblica Sociale manca ancora oggi una sintesi storiografica completa ed aggiornata, ancor più che sugli altri temi in precedenza trattati. La biografia mussoliniana di De Felice, come si è detto, è incompiuta e comunque tutto sarebbe stata meno che una sintesi; e il lettore desideroso di farsi un’idea sulla guerra civile è costretto a rivolgersi ad opere ora datate, ora smaccatamente di parte, ora dedicate ad alcuni temi specifici, ma incapaci di fornire un quadro complessivo. Questo non vuol dire che non siano disponibili studi seri sull’argomento e che tutta la storiografia sulla Rsi debba considerarsi lacunosa o settaria: persino nel volume sulla “Repubblica di Mussolini” scritto da un Giorgio Bocca nella piena maturità si rinvengono giudizi e informazioni utili, come del resto si trovano nella pubblicistica di Giorgio Pisanò. Esiste, poi, la memorialistica, spesso vivace e avvincente, perché molti protagonisti degli eventi, pur non essendo letterati o giornalisti di professione, avevano ottime capacità di scrittura, affinate, il più delle volte, nei seri licei classici della scuola gentiliana. Ma non sempre certe pubblicazioni sono accessibili in libreria e per il lettore che voglia farsi un’idea né superficiale né partigiana della guerra civile senza trasformarsi in un topo di biblioteca o d’archivio il volume di Ragionieri presenta un’indubbia utilità.
Fatte queste premesse, è giusto prospettare al pubblico quelli che sono i criteri ispiratori della sintesi di Ragionieri, visto e considerato che le prefazioni andrebbero scritte in funzione del lettore, e non dell’autore, come spesso succede. Occorre, in primo luogo, precisare che questo libro non nega un valore morale alla Resistenza e non tradisce alcuna simpatia né per i tedeschi, né per il fascismo, cui l’autore addebita la responsabilità non solo di aver voluto la guerra, ma anche di aver soppresso le libertà democratiche. Tuttavia si distingue per alcune prese di posizione che differenziano la sua interpretazione dei fatti dalla vulgata sino ad oggi dominante. In primo luogo, non ritiene il contributo del movimento partigiano né determinante, né apprezzabile ai fini della sconfitta della Germania. Si trattò, scrive Ragionieri citando Clausewitz, di una “piccola guerra ausiliaria”, che, si potrebbe aggiungere, provocò alla popolazione civile un cumulo di sofferenze, sotto forma di rappresaglie tedesche, spropositato rispetto ai benefici bellici. Non si può non consentire con quest’affermazione, che poi è una semplice constatazione: gli unici movimenti di Resistenza che abbiano recato un contributo militare determinante all’esito del conflitto sono quello jugoslavo, che per altro tanto pesò su noi italiani, e, aspetto che Ragionieri non ricorda, quella norvegese. Sabotando lo stabilimento tedesco in cui veniva preparata l’acqua pesante indispensabile alla realizzazione della bomba atomica, la Resistenza scandinava impedì infatti a Hitler di realizzare quelle armi segrete che, coniugate con gli straordinari sviluppi della missilistica, avrebbero potuto capovolgere le sorti del conflitto o, fatto forse ancora più grave, trasformare quella guerra, combattuta sino allora con armi convenzionali, in un’apocalisse atomica. Hitler, che durante il primo conflitto mondiale era rimasto vittima dei gas asfissianti, rispettò fino all’ultimo le convenzioni internazionali in materia; ma dinanzi alla prospettiva della sconfitta non avrebbe certo rinunciato all’utilizzazione dell’atomica, come del resto non vi rinunciarono gli statunitensi, pur prossimi alla vittoria finale sul Giappone. La sua minacciosa invocazione “Dio mi perdoni gli ultimi cinque minuti di guerra” non è da considerarsi meramente retorica.
In più, Ragionieri sostiene che il movimento partigiano rimase minoritario sino ai giorni che precedettero il 25 aprile. Si tratta di una verità lampante, confermata anche dalle oneste ammissioni del generale Cadorna, ma a lungo rimossa, in quanto in contrasto con quella elevazione della Resistenza a mito fondante la democrazia repubblicana su cui tante fortune politiche sono state edificate. L’autore esprime il suo disaccordo con tale mitizzazione del movimento partigiano, anche perché – come giustamente ricorda – all’interno di esso era largamente rappresentata e per certi aspetti prevalente una componente ideologica, quella comunista, che era forse repubblicana, ma non era affatto democratica. Al tempo stesso, Ragionieri, pur nell’ambito di un giudizio complessivamente ostile, riconosce alla Repubblica Sociale “qualcosa di positivo”: da un punto di vista soggettivo il “sentimento di onore” che animò molti dei suoi aderenti, da un punto di vista oggettivo aver consentito anche nel territorio occupato dai tedeschi la sopravvivenza di un’organizzazione statale, sottraendo gli italiani a quella che, se Mussolini non avesse interposto la sua persona fra gli italiani e Hitler, sarebbe stata una spietata vendetta germanica. Riecheggia in questo giudizio la tesi della “Repubblica necessaria”, per citare il titolo del volume del ministro guardasigilli della Rsi, Piero Pisenti, anche se, con l’onestà intellettuale che lo contraddistingue, Ragionieri non tace le gravi limitazioni all’effettiva sovranità del neocostituito Stato inflitte dai tedeschi, a cominciare dalle sorti dell’Alto Adige e del cosiddetto Litorale Adriatico. Menomazioni odiose dolorose, contro le quali Mussolini e in genere i fascisti repubblicani non smisero mai di protestare, ma – è doverosamente triste riconoscerlo – con relativo successo: ormai dopo l’8 settembre Hitler, pur riconoscendo a Mussolini le virtù di un “ultimo romano”, considerava dopo l’8 settembre gli italiani un “popolo di zingari”. Anche in questo, l’autore si può considerare in linea con le posizioni di un De Felice, il quale, in un’opera come Il rosso e il nero - che, scritta alla vigilia della scomparsa, assume per molti aspetti le caratteristiche di un testamento spirituale - non nascose le sue riserve sull’effettiva utilità della Repubblica Sociale nell’impedire una “polonizzazione dell’Italia”.
Sporadiche obiezioni, in genere di marginale importanza nell’economia dell’opera, potrebbero essere mosse al volume di Ragionieri: da una certa inclinazione a sposare il punto di vista delle fonti volta volta citate, con qualche lieve contraddizione, per esempio sulla figura di Pavolini, allo stesso impiego del termine “Repubblica di Salò”, termine polemico e non scientifico, visto che la cittadina lacustre non fu mai la capitale dello Stato fascista, ma solo la sede di alcuni dei suoi uffici. Difetti ampiamente controbilanciati dalla lucidità delle osservazioni, soprattutto in materia militare. L’autore, per esempio, coglie con molta acutezza i pregi del sistema militare tedesco, fondato su una fondamentale uguaglianza dinanzi ai disagi e ai pericoli della guerra fra ufficiali e soldati: stesse razioni, mensa comune in luogo di operazioni, uguale equipaggiamento, perché dinanzi al pericolo siamo tutti uguali. Chi scrive, che ha avuto modo in più occasioni di raccogliere le confidenze di soldati semplici o sottufficiali addestrati in Germania dopo l’8 settembre, ha trovato in queste pagine una spiegazione dei motivi per cui essi conservavano un buon ricordo della preparazione ricevuta in quell’occasione dai sottufficiali tedeschi, nonostante il rigore e in taluni casi la spietatezza della disciplina. Sempre in materia militare, emergono con chiarezza dal volume di Ragionieri i due tragici errori della Rsi, nati dal compromesso fra le posizioni del segretario del partito fascista repubblicano Pavolini, che voleva un esercito politicizzato, e del ministro della guerra Graziani, che voleva un esercito apolitico, fondato sul servizio militare obbligatorio. I richiami alle armi dei soldati di leva, spingendo molti giovani alla renitenza o alla diserzione, posero a disposizione della Resistenza masse di sbandati; la decisione di militarizzare il partito, istituendo le Brigate Nere, contrapposte alle brigate partigiane, finì per togliere credibilità alla stessa credibilità istituzionale della Rsi: uno Stato che si ritiene sovrano non può contrapporre a bande di ribelli bande di iscritti a un partito, sia pure unico. Col senno del poi, la strada da percorrere sarebbe stata la creazione di un esercito apolitico, ma su base volontaria, cui non sarebbe certo mancato l’afflusso di giovani impazienti di “cercar la bella morte” per difendere non tanto il fascismo, quanto il suolo patrio. Il caso della X Mas è un esempio evidente. Ma Pavolini, che pure era stato uno degli esponenti più intelligenti e qualificati del fascismo regime, era ormai prigioniero del suo “romanticismo squadrista”, del suo giacobinismo da Saint-Just in camicia nera e Graziani, nonostante la sua formazione un po’ atipica (proveniva dal complemento) restava pur sempre un militare del Regio Esercito, diffidente nei confronti dei volontari e “ordinanzista”. Un certo approfondimento avrebbe meritato, forse, l’accertamento dell’influenza che il comportamento spesso irresponsabile o meschino di esponenti del governo Badoglio esercitò sull’adesione alla Rsi di taluni esponenti fascisti. L’assassinio di Ettore Muti fece comprendere a molti gerarchi che nel nuovo assetto politico non esistevano possibilità di sopravvivenza e l’infelice decisione del ministro della pubblica istruzione Severi di pubblicare, commentandola con disprezzo, una lettera privata di Giovanni Gentile, in cui questi offriva la sua collaborazione al governo Badoglio influì, a giudizio di chi scrive, non poco sulle successive scelte del filosofo, insieme all’amicizia personale per Mussolini e alla preoccupazione per la sorte di uno dei suoi figli, prigioniero in Germania.
Ma, al di là della valutazione dei singoli aspetti, è giusto esprimere un giudizio favorevole su almeno due aspetti chiave dell’opera, che ne rendono la lettura interessante e a volte avvincente per il lettore. L’uno è di natura stilistica e consiste nell’uso ricco e vivace delle fonti, che Ragionieri ha il dono di far “parlare”, comunicando al lettore buona parte del suo entusiasmo. Spiccano per quantità e qualità, per esempio, le citazioni del segretario personale di Mussolini Dolfin, il cui diario è una delle fonti principali dell’opera. L’altro, cui si accennava prima, è invece di indole etico-politica e fa di questo libro un testo consigliabile a chi intenda accostarsi senza superficialità né partigianeria ad una delle ore più tragiche della storia italiana del secolo scorso. Nel suo desiderio di comprendere, nel suo rifiuto di accettare i luoghi comuni della retorica antifascista, ma anche di quella neofascista, nel suo tentativo di porsi dinanzi alle fonti senza le stratificate sedimentazioni dell’ideologia, il volume di Ragionieri costituisce una voce fresca in un dibattito ideologico che da vent’anni a questa parte, invece di decantarsi, come ci si sarebbe potuti aspettare per la maggior distanza cronologica dagli eventi, tende a intossicarsi di sempre nuovi veleni. Il fatto che questa voce provenga dal cuore di quella provincia di Firenze che, come scappò detto ad Arturo Carlo Jemolo, ha dato all’Italia il peggior fascismo e il peggior antifascismo, costituisce di per sé un motivo di speranza.