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L'Italia Fascista 1933-1940 Vol.II di Mario Ragionieri
(2 voti)
Written by Mario Ragionieri   
E' uscito il secondo volume dell'opera di Mario Ragionieri dedicata alla storia di Italia durante il ventennio fascista.
Pubblichiamo di seguito la prefazione al libro scritta dallo storico Enrico Nistri.

Gli anni compresi fra il 1937 e il 1940, quelli trattati in quest’ultima realizzazione dell’ormai quasi decennale impegno storiografico di Mario Ragionieri sulle vicende dell’Italia contemporanea, potrebbero essere definiti gli anni del trascolorare del consenso: del progressivo stemperarsi delle simpatie per Mussolini da parte di un’opinione pubblica che, specie dopo il successo dell’impresa d’Etiopia, aveva espresso una quasi plebiscitaria adesione al fascismo, dell’incrinarsi di una semiunanime appoggio al regime e dell’emergere di una serie di conflitti interiori, divergenze espresse o più spesso sottintese, se non esplicite forme di opposizione che avrebbero reso più agevole, in seguito al crollo bellico dell’Italia, il rapido sgretolamento del regime.
La storiografia più consolidata – quella che Renzo De Felice, da Ragionieri ben conosciuto e apprezzato, definiva la vulgata antifascista – ha ricondotto l’emergere di questo dissenso ancora embrionale a tre scelte politiche del regime: l’alleanza con la Germania nazionalsocialista, la legislazione antiebraica, almeno in parte conseguente, e la partecipazione alla guerra di Spagna. Sui primi due aspetti ha insistito soprattutto la storiografia di matrice liberale e in parte quella cattolica, preferendo glissare sul terzo, dato che il clero italiano aveva benedetto la “Crociata”, non senza qualche giustificazione, visti i massacri di sacerdoti, suore, seminaristi commessi dai repubblicani e che molti antifascisti liberali, come la medaglia d’Oro della Resistenza Edgardo Sogno, erano partiti volontari nella guerra di Spagna. Sulle disillusioni legate all’appoggio al generalissimo Franco giocavano invece la storiografia e la memorialistica di orientamento marxista, per almeno due motivi. Il primo risiede nel fatto che l’appoggio del regime ai golpisti spagnoli, nelle ricostruzioni autobiografiche (e autogiustificatorie) di molti fascisti di sinistra “redenti” con l’adesione Pci, da Vittorini a Bilenchi, avrebbe segnato l’inizio di un lento ravvedimento operoso che li avrebbe condotti all’antifascismo; l’altro consiste nel fatto che la collusione della Russia di Stalin col Terzo Reich e l’antisemitismo del dittatore georgiano rendevano poco plausibile l’antigermanesimo e la simpatia per gli ebrei perseguitati come moventi ideologici del distacco dal regime per i futuri militanti comunisti. 
In realtà, come ci mostra l’ampia e documentatissima analisi condotta da Ragionieri, lo scemare del consenso nei confronti del regime presentava motivazioni molto diverse. Senza dubbio, l’alleanza con la Germania hitleriana non era popolare, in una nazione nella quale dal Risorgimento alla grande guerra, con l’imbarazzata e contraddittoria parentesi della Triplice, la pedagogia collettiva era stata a lungo improntata in chiave antiaustriaca e antitedesca (non è un caso, del resto, che le “veline” del ministero della Cultura popolare imponessero ai giornalisti di chiamare preferibilmente “germanici”, non appunto “tedeschi”, gli alleati. Ma non dev’essere neppure sottovalutata la tradizionale tendenza di molti italiani ad andare incontro al vincitore, che, dinanzi alle folgoranti vittorie di Hitler, avrebbe indotto molti di coloro che in precedenza non facevano mistero del loro antinazismo e antigermanesimo a perorare l’intervento. A loro volta, le stesse leggi razziali favorirono più d’una crisi di coscienza, in una nazione in cui gli ebrei erano integrati molto più che in qualsiasi altro paese europeo; al tempo stesso, però, trovarono occasionali alleati in un certo antigiudaismo di matrice cattolica e nel cinico opportunismo di quanti, a tutti i livelli, dal bottegaio privato di uno scomodo concorrente all’intellettuale pronto a occupare la cattedra rimasta vacante del collega epurato, colsero nei provvedimenti del regime un’occasione di arricchimento indebito o di crescita professionale. Quanto alla partecipazione del regime alla guerra di Spagna dalla parte dei franchisti, essa può anche avere aperto gli occhi a qualche giovane fascista di sinistra, che comunque – vuoi per opportunismo, vuoi per la speranza di potere dall’interno contribuire alla trasformazione del regime in senso “sociale” - continuò a tenerli ancora socchiusi fin quando le sorti del secondo conflitto mondiale, nel drammatico inverno 1942-43, non parvero effettivamente decise. È semmai opportuno aggiungere che – come questo volume documenta, citando per esempio un testimone d’eccezione come Tullio Cianetti - se vi fu un periodo in cui il fascismo visse una straordinaria stagione d’impegno sociale furono proprio gli anni fra il ’37 e la fine del regime. Da un lato l’“assalto al latifondo siciliano”, che avrebbe dovuto portare, anche con l’esproprio della proprietà assenteista, alla creazione di ventimila unità poderali, dall’altro una serie d’interventi legislativi, col varo del nuovo Codice Civile, la redazione di un apposito libro dedicato ai rapporti di lavoro, l’allargamento delle competenze dei sindacati, cui passò la gestione dei potenti Dopolavoro, la reintegrazione dei fiduciari di fabbrica, di cui gli industriali avevano in precedenza imposto l’esautorazione, il varo di una legislazione assistenziale e pensionistica cominciarono a dare consistenza pratica ai propositi mussoliniani di “andare verso il popolo”.
Questa politica di apertura “a sinistra” non escludeva una collusione del regime con gli interessi dei potentati industriali, dei Pirelli, dei Volpi, degli Agnelli, dei Cini, dei Falck, che poteva indurre un osservatore avvertito come Ettore Conti a parlare, nel suo diario, della nascita di un “nuovo feudalesimo”; ma questa collusione – in parte motivata dalla necessità di fronteggiare l’emergenza autarchica – si verificava in una fase di ripresa economica, in parte accompagnata da un incremento della competitività internazionale. Grazie alla crescita delle spese militari, ma anche a una maggior concorrenzialità connessa alla svalutazione della lira, in Italia – ricorda Ragionieri - “nel 1937- 1938 l’indice della produzione industriale tornò al livello del 1929 cioè prima della ‘grande crisi’ e nei successivi due anni continuò a crescere tanto che nel 1939 la bilancia commerciale fu per la prima volta, dopo oltre sessant’anni, in attivo”. Tale crescita si accompagnò a una ristrutturazione dell’apparato produttivo, che privilegiò i settori trainanti dell’industria pesante e chimica, a detrimento della produzione di beni di consumo; ma comunque conobbe esiti positivi sull’occupazione, accresciuti anche dalle nuove opportunità offerte dalle colonie e in particolare dal trasferimento di ventimila coloni in Libia nelle unità poderali apprestate dal governatore Balbo. A tutto questo occorre aggiungere che la crescita della grande industria protetta, anche ai fini autarchici, dal regime, comportava anche una crescita dell’“indotto”, a beneficio di una vasta serie di piccole aziende e microimprese. Per quanto “drogato” dagli eventi bellici, lo sviluppo industriale di una città come Firenze negli anni bellici e prebellici, con la nascita, poi in parte rientrata, di un polo aeronautico, è per esempio indicativa dei benefici congiunturali che questo incremento delle spese militari e non solo comportò per la crescita dell’occupazione e di conseguenza del consenso al regime nel mondo operaio.
Tale politica però non poteva non presentare dei costi. L’espansione dell’intervento pubblico nell’economia, con la crescita dell’Iri, e in genere l’incremento della spesa pubblica, con finalità civili e militari, condussero a un appesantimento delle tasse sulla proprietà fondiaria e a un accresciuto disavanzo statale. Al tempo stesso la rinuncia alla quota 90, il cui raggiungimento tanti sacrifici era costata all’economia italiana, con la svalutazione della lira del 40 per cento rispetto alla parità fissata nel 1927, mise in moto un processo inflativo destinato a colpire soprattutto i redditi fissi. Tale dato di carattere economico si accompagnava a un fenomeno di carattere politico e in senso lato morale tipico dell’orientamento del regime negli ultimi anni di vita: la polemica antiborghese, la tendenza non solo a penalizzare certi settori del ceto medio sotto il profilo economico, ma anche ad additarne al disprezzo mentalità e comportamenti. Il tutto dev’essere inquadrato nell’ambito di un più vasto tentativo di creare “l’uomo nuovo”, con cui il fascismo, parte in concorrenza col nazionalsocialismo, parte al traino di esso, cercava di affermare una sino ad allora più declamata che attuata vocazione totalitaria.
È forse proprio sotto questo profilo opportuno inquadrare il fenomeno della perdita di consenso del regime, che non fu – come l’ampia documentazione prodotta da Ragionieri sembra confermare – una perdita di consenso popolare, nel mondo operaio o contadino, ma essenzialmente borghese e piccolo-borghese. Il fascismo, nonostante le origini socialiste di Mussolini e le istanze radicali del programma di San Sepolcro, si era venuto affermando grazie al sostegno della piccola borghesia impiegatizia, possidente, intellettuale, e proprio in questo ambito aveva consolidato il suo consenso; a partire dalla conclusione della guerra d’Etiopia cominciò tuttavia a praticare una politica non solo di apertura ai ceti popolari (che, in effetti, si era già manifestata, per esempio nella pubblicazione della Carta del Lavoro, apprezzata dallo stesso Bureau international du travail), ma di aspra e spesso ingenerosa propaganda antiborghese. Rientrano in questo indirizzo provvedimenti di scarso impatto pratico, ma di notevole rilievo psicologico, come l’imposizione del “voi” al posto del “lei” o l’abolizione della stretta di mano. Si trattava di misure che, prese da sole, non avrebbero mancato di una loro pertinenza (l’uso del “lei” al posto del “voi” costituisce effettivamente un retaggio della dominazione spagnola ed è fonte di ambiguità nel discorso; la stretta di mano è quanto meno antigienica); ma, per i modi con cui furono varate e la propaganda che le accompagnò risultarono sgradite a larga parte di una borghesia che nel fascismo aveva creduto e continuava a credere, ma rimaneva giustamente affezionata alle proprie tradizioni e consuetudini. Rientravano però in questa politica anche provvedimenti di maggior rilievo nell’ambito culturale e persino formativo, come la carta della Scuola e la riforma Bottai della scuola media, che allargava l’influenza delle istituzioni di partito nel mondo dell’istruzione e introduceva fra l’altro il lavoro manuale in tutti gli ordini di studi, coniugando – col tipico eclettismo culturale del gerarca romano – istanze del populismo fascista e suggestioni del pragmatismo statunitense. Non a caso tale riforma suscitò la comprensibile ostilità di larga parte di un corpo docente di formazione idealistica e – depurata ovviamente delle superfetazioni ideologiche fasciste, – non dispiacque nel 1944 ai funzionari dell’amministrazione militare statunitense incaricati di “bonificare” il sistema scolastico italiano e vent’anni dopo sarebbe stata riproposta in molti suoi aspetti (dall’introduzione delle “applicazioni tecniche” maschili al latino per tutti) dalla legge con cui il primo centro-sinistra introdusse la scuola media dell’obbligo. Una legge nata dal compromesso fra socialisti e democristiani, ma di fatto varata con la consulenza di ispettori e funzionari entrati in servizio, spesso per chiamata diretta, quando era ministro Bottai.
La stessa politica razziale del regime fascista dev’essere sotto più di un aspetto inserita in questo clima. Se l’insistenza sui temi della razza nasceva anche dall’intenzione di combattere il fenomeno del meticciato (il famoso “madamismo”, contro cui fu varata un’apposita legislazione), non è difficile scorgere nella polemica antisemita una variante della polemica populista antiborghese e più in generale anticapitalistica che caratterizzò l’ultimo fascismo. L’ebreo era descritto, in base anche a tutta una letteratura riconducibile del resto a molti pensatori socialisti dell’Ottocento – da Proudhon allo stesso giovane Marx, – come un prototipo dello sfruttatore, come la quintessenza della borghesia. Non è un caso che molti giovani fascisti di sinistra non solo – come Elio Vittorini – abbiano guardato con favore all’imposizione del “voi”, scorgendovi una premessa per un ritorno all’uso “romano” del “tu” erga omnes, ma che alcuni polemisti antisemiti, che “impostavano la questione in senso antiborghese, e quasi nazionalpopolare”, suscitassero “l’interesse di molti giovani, anzi giovanissimi, specialmente nelle province e negli strati piccolo-borghesi”. Tipico il caso di Enzo Santarelli, futuro storico del fascismo d’impostazione marxista, cui appartengono le frasi virgolettate, nelle quali, pur senza fare il suo nome, parlava anche di se stesso, a suo tempo giovanissimo collaboratore della “Difesa della Razza” e poi addirittura della “Vita italiana”. 
Che cosa spingesse Mussolini a una scelta che finiva per alienargli il solido consenso del ceto medio a favore delle meno sicure simpatie dei ceti popolari non è facile stabilire. Si è già accennato al desiderio di dar vita all’“uomo nuovo” fascista; un desiderio cui non era senz’altro immune uno spirito di emulazione – conseguenza anche di un inconfessato complesso d’inferiorità - nei confronti del nazionalsocialismo tedesco. Resta il fatto che, come capita spesso quando si lascia il certo per l’incerto, il rapporto costi-benefici non fu dei migliori. Il fascismo raccolse senz’altro, fra la fine degli anni Trenta e i primi anni Quaranta, una crescita di consensi “proletari”, legati però a concrete provvidenze economiche e previdenziali più che a provvedimenti demagogici; viceversa il malcontento borghese cominciò a manifestarsi sia sotto forma di insofferenza di matrice individualistica a imposizioni populistiche, sia come reazione a provvedimenti di indole economica che minavano i redditi e di conseguenza il tenore di vita e con esso l’“onore sociale”, il “decoro” di questo o quel ceto sociale, dal proprietario di appartamenti penalizzato dal blocco dei fitti e dalla crescita dell’imposizione fiscale al ministeriale che vedeva i suoi redditi erosi dall’inflazione e si trovava ridotto a invidiare i maggiori cespiti dei nuclei familiari operai.
Ragionieri, che, in questo come negli altri suoi volumi, ha il merito di “far parlare” le carte, pubblicando fonti memorialistiche o documenti d’archivio, ci fa comprendere con molta finezza lo stato d’animo dei travet romani citando un eloquente rapporto riservato della polizia politica, datato 29 marzo 1939, che è dedicato interamente alle speranze e alle attese degli statali romani: “Si lamenta in genere che questa categoria di silenziosi lavoratori dello Stato è molto dimenticata, ed in proposito si dice che tutti gli organi competenti si preoccupano della massa operaia ch’è quella che potrebbe dare fastidio , dimenticando assai facilmente che proprio la massa operaia in genere ha un introito mensile assai più elevato di quello del povero impiegato.
Si osserva infatti che, l’impiegato, in genere è quasi sempre solo ed unico in casa a costituire fonte di guadagno, non solo, è col peso dei figli da fare studiare e da presentare nella società a secondo quelle esigenze sociali che la sua casta richiede. Nell’ambiente operaio invece, le fonti di utile in una famiglia sono diverse e non indifferenti.
Infatti, si dice, in una famiglia operaia composta dei genitori e di quattro figli superiori ai quattordici anni, coloro che mensilmente portano il loro contributo a casa, in genere sono cinque, mentre nel caso del povero impiegato, è sempre uno, il capo famiglia”.
Miserie, se si vuole, ma anche di quelle miserie era fatta l’erosione del consenso al fascismo, che comunque, dopo il 25 luglio e l’8 settembre, proprio nel ceto medio impiegatizio e magari in certe fasce di sottoproletariato – e non nell’adulata classe operaia – avrebbe trovato i suoi ultimi sostenitori.
Un discorso relativo alla crisi del consenso non può naturalmente prescindere dalle reazioni dell’opinione pubblica nei confronti della prospettiva di un’entrata in guerra a fianco della Germania nazista. Si è già ricordato come la germanofobia costituisse un minimo comune multiplo di vasti ceti della società italiana, vuoi per la tradizione risorgimentale, vuoi per i postumi della propaganda bellica del ’15-18; si potrebbe aggiungere che, nonostante la propaganda militarista del regime, la prospettiva di un ingresso in guerra, da qualsiasi parte, non incontrava certo il favore dell’opinione pubblica. Il ricordo dei massacri del primo conflitto mondiale era ancora troppo fresco, in Italia come del resto in Gran Bretagna e in Francia.
È eloquente, a questo riguardo, quanto Ragionieri ricorda a proposito del ritorno di Mussolini da Monaco, citando la testimonianza di un esponente del regime tutt’altro che antitedesco come Filippo Anfuso, futuro ambasciatore della Rsi a Berlino: “Varcato il Brennero…trovammo che se i bavaresi piangevano di gioia, gli italiani si prosternavano non davanti al duce fondatore dell’Impero, ma all’angelo della pace… Giunti a Verona, dove pochi giorni prima Mussolini aveva detto di essere armato sino ai denti, riscotendo acclamazioni frenetiche, notammo che il fatto di aver deposto le armi a Monaco di Baviera gli valeva, da parte della stessa folla, trasporti entusiastici ai quali, come tribuno, non poteva aspirare, essendo gli omaggi mistici privilegio dei taumaturghi. Fra Verona e Bologna, scorsi contadini letteralmente in ginocchio al passaggio del suo treno…A Bologna, roccaforte di un fascismo tumultuosamente bellicoso, Mussolini si accorse di essere divenuto santo e ne arguì che gli effetti di Monaco avevano superato le sue previsioni: gli italiani preferivano chiaramente i rami d’olivo a quelli d’alloro e la colomba all’aquila”.
Detto questo, Ragionieri ha il merito di cogliere il rapido mutamento dell’opinione pubblica seguito ai folgoranti successi della guerra lampo tedesca. Mutamenti di cui una personalità estremamente ricettiva delle aspettative degli italiani come Vittorio Emanuele III non tardò a tenere conto se, come avrebbe dichiarato dopo la guerra il suo figlio e successore Umberto II, la sua decisione di ratificare la dichiarazione di guerra fu condizionata dalla consapevolezza che l’atteggiamento dell’opinione pubblica era diventato “euforico” davanti alla prospettiva di facili vittorie, oltre che dal timore non infondato di una invasione tedesca (per analoghi motivi, del resto, il capo di Stato maggiore dell’Esercito, dopo il mancato intervento dell’Italia a fianco della Triplice, nel 1914, aveva cominciato a fortificare la frontiera italo-austriaca). Molto opportunamente, a questo riguardo, Ragionieri cita la testimonianza del capo dell’Ovra, Guido Leto, che rende molto bene l’evoluzione del consenso nei drammatici mesi che intercorsero fra l’agosto del 1939 e il giugno del ’40: “I nostri informatori segnalarono, prima sporadicamente, poi con maggiore frequenza ed ampiezza, uno stato di timore – che andava diffondendosi rapidamente - che la Germania fosse sul punto di riuscire a chiudere assai brillantemente e da sola la tremenda partita e che, di conseguenza , noi – se pur ideologicamente alleati – saremmo rimasti privi di ogni beneficio per quanto aveva tratto colle nostre aspirazioni nazionali!… Come nell’agosto del 1939 la polizia rilevò il quasi unanime dissenso del paese verso un’avventura bellica, così nella primavera del 1940 essa segnalò il rovesciamento della pubblica opinione presa da un’ossessionante timore di arrivare tardi”.
Mentre quindi il consenso al regime cominciava a manifestare le sue prime incrinature, il consenso alla guerra paradossalmente cresceva. Anche se si trattava, come avrebbe annotato con la consueta lucidità Giuseppe Bottai nel suo diario del 19 maggio 1940, di un consenso interessato, ai limiti del cinismo: “La gente si orienta verso la guerra a lato dei tedeschi. Una guerra d’interesse;non certo un’alleanza d’amore”. Solo settori relativamente limitati della società italiana, e in particolare del mondo cattolico, non condivisero tale evoluzione.
Questo cinico consenso che riempì le piazze ancora nel giugno del 1940 e che senz’altro fece pendere l’ago della bilancia a favore dell’intervento dopo quasi un anno di incerta non belligeranza, non affranca naturalmente Mussolini da tutte le sue colpe. In un regime dittatoriale, in cui il consenso non si misura con democratiche votazioni, ma con informazioni di polizia, e l’opinione pubblica è manovrata dalle “veline” ministeriali, chi sta al vertice è giusto risponda anche di errori che all’epoca erano popolari. Resta, naturalmente, da porsi una domanda, a parziale deroga della massima secondo cui la storia non si fa con le congiunzioni ipotetiche: se le sorti della guerra fossero state diverse, il consenso al fascismo, operaio o impiegatizio, piccolo-borghese o “plutocratico”, sarebbe ugualmente venuto meno? È una domanda cui l’opera di Mario Ragionieri fornisce fin d’ora più d’una risposta.
Nistri Lischi