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25 Luglio 1943 - Il suicidio inconsapevole di un regime
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Written by Mario Ragionieri   

 

 

Presentiamo il nuovo volume di Mario Ragionieri:

25 Luglio 1943 - Il suicidio inconsapevole di un regime

edito da Ibiskos.


Cliccando qui è possibile scaricare il capitolo

LA CONSISTENZA DELLE FORZE ARMATE ITALIANE PRIMA DELLO SBARCO IN SICILIA "HUSKY"

 

 

La prefazione di Enrico Nistri:


Pochi eventi del nostro passato prossimo sono stati oggetto dello stesso interesse storico come la riunione del Gran Consiglio del Fascismo che, dalle cinque del pomeriggio del 24 luglio 1943 alle 2,40 della mattina successiva, pose le premesse per la caduta del regime, l'arresto di Mussolini e il varo del ministero Badoglio. Memoriali, testimonianze, indiscrezioni sui cinquecentosessanta minuti che cambiarono la storia d'Italia si sono susseguiti e sovrapposti nel corso di almeno un cinquantennio, incentivati da una complessa serie di fattori: l'assenza di un verbale della seduta, che ha lasciato adito a versioni contrastanti, bisognose di verifiche incrociate e di un'attenta critica delle fonti; il destino tragico di molti firmatari dell'ordine del giorno Grandi, fucilati meno di cinque mesi dopo nella fortezza di San Procolo dopo un processo sommario; il carattere di faida familiare, quasi di moderna tragedia greca, che la vicenda assunse per la presenza fra gli oppositori di Mussolini del genero stesso del duce; la rapidità e la facilità con cui un regime che aveva regolato e irreggimentato la vita degli italiani, inquadrato le nuove generazioni, raggiunto punte altissime di consenso, crollò nel volgere di poche ore, almeno all'apparenza nel plauso generale. Nessuna delle altre grandi date che hanno segnato la storia italiana nella seconda guerra mondiale ha suscitato pari interesse, neppure l'8 settembre o il 25 aprile, né ha un senso stupirsene. L'una e l'altra, infatti, furono la prevedibile risultante di un processo ormai avviato, di una reazione a catena innescata in quella lunga notte del Gran Consiglio in cui si consumò il suicidio del regime.
Da tempo gli storici più avveduti hanno cominciato a ridimensionare la tesi tradizionale - funzionale, paradossalmente, sia alla retorica antifascista che a quella neofascista - secondo cui il regime sarebbe caduto solo per la congiura di parte dei suoi gerarchi, magari, secondo la vulgata marxista, imposta dalla crescente mobilitazione popolare e dagli scioperi della primavera del 1943. Renzo De Felice, in particolare, nella sua monumentale biografia di Mussolini, ha manifestato una precisa convinzione: più che del "tradimento" di alcuni gerarchi, il crollo del regime fu diretta conseguenza del fallimento dell'incontro fra Mussolini e Hitler avvenuto il 19 luglio 1943 a villa Gaggia, nei pressi di Feltre. Nel corso di quella riunione, avvenuta sei giorni prima del 25 luglio e tre giorni dopo la richiesta di convocazione del Gran Consiglio, il duce avrebbe voluto prospettare al Führer l'opportunità o di una pace separata con l'Unione Sovietica o di uno sganciamento dell'Italia dal conflitto. Non vi riuscì, sommerso dalla limacciosa e solipsistica eloquenza del dittatore tedesco; e a quel punto si convinse che la situazione era irrimediabilmente perduta, sotto la pressione dei bombardamenti su Roma e dell'avanzata delle truppe anglo-americane in Sicilia. Per questo poco o nulla fece per prevenire il complotto di Grandi, accettò rassegnato l'evoluzione del dibattito nel Gran Consiglio, legittimò il nuovo governo Badoglio, con cui, con una lettera scritta per intima convinzione, si dichiarò disposto a collaborare. Questa tesi, che oggi gode del sostegno della storiografia più avveduta, conosce tuttavia una variante ancora più iconoclasta rispetto ai luoghi comuni della retorica neofascista. In base ad essa Mussolini non subì ma promosse il 25 luglio, pilotandolo per rendere possibile, tramite la propria uscita di scena, lo sganciamento dell'Italia da un conflitto ormai insostenibile. È la tesi sviluppata da Pietro Ciabattini, in un saggio, intitolato Il Re, il Duce e il loro 25 luglio uscito di recente con una prefazione dell'insigne storico Giuseppe Parlato.
Su di un terreno diverso si colloca l'ultima fatica storiografica di Mario Ragionieri, libero ricercatore che con questo saggio chiude un ciclo di studi cominciato nel 2001 con la pubblicazione di un volume dedicato all'8 settembre, proseguito con il saggio Dalla democrazia al regime, sulla nascita e il consolidamento del fascismo al potere, dilatatosi in seguito con un'opera dedicata al patto Ribbentrop-Molotov e continuato nel 2005 con un imponente volume intitolato Salò e l'Italia nella guerra civile.
L'indole di Ragionieri è quella di uno studioso incline più alla rivisitazione complessiva di un determinato fenomeno che al saggio inteso come essai, come tentativo di dimostrare una specifica ipotesi di lavoro. Lo scrittore empolese è appassionato dagli eventi, dai personaggi, dai documenti, che nelle sue opere abbondano e in questo volume sono inseriti organicamente nel testo, invece di essere confinati in appendice, con una scelta che sulle prime può disorientare il lettore, ma alla lunga lo aiuta, quasi lo costringe a penetrare meglio nel vivo della narrazione, a immedesimarsi nei personaggi e negli eventi. Questa indole, se da un lato rischia di dare ai suoi scritti un taglio all'apparenza più compilativo che critico, dall'altro presenta alcuni indubbi meriti, che nel suo ultimo volume trovano ampia conferma: l'assenza di tesi precostituite, la ricchezza della documentazione, costituita in larga misura da diari, resoconti, memoriali non inediti ma comunque di non facile accessibilità, l'orgoglio e al tempo stesso l'umiltà del ricercatore più preoccupato di consentire al lettore un contatto diretto con le fonti che di esibirsi in un elegante esercizio accademico di storia della storiografia. Probabilmente la sua stessa formazione non universitaria garantisce queste e altre qualità della sua produzione saggistica, a partire dalla buona leggibilità, pregio non trascurabile, soprattutto se paragonata all'involuta oscurità di larga parte della nostra storiografia accademica, spesso più seriosa che seria.
Come accennato, Ragionieri non condivide la tesi di un Mussolini colluso con i congiurati del 25 luglio. Pur senza citare esplicitamente il saggio di Ciabattini in cui si cerca di dimostrare questo assunto, liquida tale teoria come "impensabile" e dipinge semmai il ritratto di un duce impegnato a battersi con tutti i mezzi a sua disposizione contro l'ordine del giorno Grandi. Non per questo, però, il suo volume può essere considerato uno studio privo di originalità, nel merito e soprattutto nel metodo. A parte i tratti già delineati, il saggio presenta almeno due pregi non trascurabili. Il primo consiste nel non ridurre il 25 luglio a una mera congiura di palazzo, presentandolo invece come la risultante di un lento degrado del regime, conseguenza dell'impreparazione militare ma anche dell'inadeguatezza culturale e morale di buona parte della classe dirigente fascista. L'altro, intimamente legato, è la capacità dell'autore di presentare la crisi del regime non come un processo deterministico, ma come la conseguenza di un declino su cui pesano non solo i fattori economici, sociali e militari, ma anche gli uomini, con le loro debolezze, le loro ambiguità, i loro slanci di eroismo e i loro ripiegamenti nel "particulare". Più che l'ennesimo saggio sulla lunga notte che cambiò la storia d'Italia (o, forse, che ne accelerò il cambiamento), questo libro può essere letto come una grande storia a tutto campo della penisola nei primi tre anni di guerra, che sono poi gli ultimi tre anni del regime: impostazione che, se da un lato, insieme al largo ricorso alle citazioni, ne giustifica l'ampia mole, dall'altro ne costituisce il fascino. Meno di un quinto delle pagine che corredano il volume è dedicato al 25 luglio e dintorni; ma gli ampi capitoli sulle vicende belliche, sul morale della società italiana e in particolare dei giovani nel corso del conflitto, sulla fragilità del Partito nazionale fascista e dei suoi vertici avvincono sempre di più il lettore, sino a conferire alla lunga notte del Gran Consiglio un pathos da tragedia greca che si approssima al suo tragico epilogo, all'ineludibile catastrofe finale.
Più che per le tesi sviluppate, così, queste pagine meritano di essere lette per la capacità di raccontare e commentare criticamente aspetti spesso poco noti della nostra infelice belligeranza, senza muovere da posizioni preconcette, ma documentando nella loro complessità i comportamenti di ceti sociali, classi anagrafiche, organizzazioni politiche e militari, singoli personaggi. Lo studio di Ragionieri ridimensiona le ormai datate affermazioni di Federico Chabod, secondo cui già nel 1939 il consenso al regime e lo stesso prestigio di Mussolini sarebbero venuti meno dopo i primi rovesci bellici: affermazioni che basterebbe a smentire l'altissimo numero di volontari nelle forze armate della Repubblica Sociale, dopo 3 anni di guerra.
In realtà, come osserva opportunamente l'autore, il rapporto tra fascismo e popolo italiano conobbe a lungo fasi alterne, strettamente condizionate dall'andamento delle operazioni belliche più che da fattori etico-politici. Il significato degli scioperi del marzo e dell'aprile 1943 è debitamente "depoliticizzato" da Ragionieri, sulla base non solo delle affermazioni di Dino Grandi, quanto di alcuni dati di fatto obiettivi, come la partecipazione all'astensione dal lavoro persino di iscritti al partito e degli stessi membri della legione della Milizia costituita all'interno della Fiat. Il fatto, ancor più significativo, che Mussolini si sia opposto all'adozione di provvedimenti a carico degli scioperanti induce anzi l'autore a prospettare l'ipotesi, non infondata, che il dittatore incoraggiasse in certo qual modo il malcontento per intervenire, con provvedimenti di tipo paternalistico, a favore degli operai e contro un padronato che aveva dimostrato in molti casi di boicottare lo sforzo bellico.
L'inadeguatezza dei quadri e in particolare dei vertici del Partito nazionale fascista emerge con molta evidenza, anche attraverso la memorialistica degli stessi gerarchi, che Ragionieri ha il dono di "far parlare" con molta efficacia. Indimenticabili, a questo riguardo, risultano le annotazioni di Ciano sul nuovo segretario Vidussoni, che parla della Storia del fascismo di Oriani, confondendolo con Paolo Orano, e a proposito di De Chirico confessa di ignorarlo perché da due anni è troppo occupato per leggere "scrittori moderni". Ma anche le frasi che Orio Vergani attribuiva allo stesso Ciano dopo la defenestrazione dal ministero degli esteri inducono a riflettere: "La mia sorte mi ha fatto diventare l'uomo che più di tutti è antipatico agli italiani. Conosco tutte le barzellette sul mio conto, quello che si dice della mia vita privata, delle mie ricchezze, della mia frivolezza. So che i giornalisti, che mi sono amici, mi rendono un servizio quando non pubblicano la mia fotografia. So che al cinema la gente ride e ridacchia quando mi vede nei cinegiornali". Confessioni vere? Forse, e comunque senz'altro verosimili.
Spicca per vivacità il ritratto di Mussolini, che, forte anche della sua esperienza di militare di truppa nel primo conflitto mondiale, sa fin troppo bene che nessuna guerra può essere popolare quando si protrae a lungo, e, se è orgoglioso dell'eroismo di tanti giovani, non nasconde la sua delusione per "gli elementi deleteri dovuti a quei quattro milioni di schiavi che Roma ebbe torto di portare nel suo grembo" e auspica che i fascisti si considerino combattenti, più che soldati ("soldato deriva da soldo, soldato è una cosa, combattente è un'altra, tutti i combattenti sono soldati, ma non è detto che tutti i soldati siano combattenti"). Eppure questo Mussolini che sogna un popolo di combattenti è lo stesso che, la mattina del 25 luglio, tornato alle otto al suo tavolo di lavoro dopo la seduta del Gran Consiglio, conclude la sua esperienza di primo ministro del Regno d'Italia telegrafando parere favorevole a una domanda di grazia di due partigiani dalmati condannati a morte. Molto sottile è anche il modo con cui Ragionieri tratteggia la figura di Vittorio Emanuele, col suo "formalismo assoluto", la stima, condivisa, nei confronti di Mussolini, cui lo legava però "un rapporto contrassegnato sempre da un reciproco senso di inferiorità", il disprezzo per la classe dirigente prefascista e la sua conseguente preferenza per un gabinetto tecnico piuttosto che per un governo di revenants.
Luci e ombre, pregi e difetti, fragilità e contraddizioni non sono un monopolio solo dei maggiori protagonisti della tragedia. Impressionante, per esempio, è il ritratto del futuro martire della Resistenza antitedesca a Roma, il colonnello Montezemolo, che, interprete ufficiale dello Stato maggiore italiano all'incontro presso Feltre, esibisce sull'uniforme le decorazioni tedesche e ostenta "un atteggiamento cameratesco, di cordialità spinta al punto di sfiorare l'esagerazione nei confronti degli ufficiali delle SS". Mero opportunismo, intima convinzione poi smentita dagli eventi o accorto doppio gioco in vista dei futuri sviluppi bellici?
Se poi dal ritratto dei grandi personaggi si passa all'analisi del morale della popolazione, lo sfascio del sistema-paese, come si direbbe oggi, emerge, più che dai grandi numeri delle perdite belliche, da piccoli e grandi comportamenti collettivi che prefigurano lo sgretolamento sia del fronte interno, sia della capacità combattiva delle truppe: dai soldati che tornano da casa con omaggi gastronomici per gli ufficiali - quasi una "tangente" per l'ottenimento della licenza - agli avieri di guardia all'aeroporto di Ciampino, che sotto un bombardamento fuggono fino a Velletri ("e chiamano ciò 'diradamento'", commenterà con amaro sarcasmo Mussolini nella Storia di un anno); dagli industriali, che perseguendo il profitto immediato privilegiano la produzione di beni privati rispetto al soddisfacimento delle esigenze belliche al proliferare poco e mal contrastato della borsa nera.
È onesto aggiungere però che tutti questi sintomi hanno un senso solo se inquadrati nell'ambito di una più vasta crisi militare e di un quadro diplomatico che da un lato obbligava l'Italia, in quanto principale alleato della Germania, al proseguimento della guerra, dall'altro vedeva Hitler escludere l'eventualità di una pace separata con l'Unione Sovietica. Si può discutere a lungo (e studiosi intelligenti e preparati come Franco Bandini l'hanno fatto) se il 25 luglio 1943 le sorti del conflitto, dopo le sconfitte di El Alamein e Stalingrado, fossero davvero segnate; ma in ogni caso lo storico fa sempre bene a guardarsi dalla tentazione di interpretare gli eventi del passato alla luce di quanto si è poi verificato. Al di là di questi paradossi, restano due elementi oggettivi: nell'estate del 1943 Stalin, sospettoso degli alleati occidentali e preoccupato che l'Unione Sovietica potesse arrivare stremata alla conclusione del conflitto, sarebbe stato disponibile a trattative, e le forze armate italiane, anche per la loro dispersione su troppi fronti e zone d'occupazione, non erano in grado di difendere il suolo patrio. Mussolini ne era consapevole per primo e per questo vi fu chi - come l'ambasciatore Pietromarchi - ipotizzò nella sua assunzione ad interim del ministero degli esteri, in occasione del rimpasto governativo del febbraio 1943, la ricerca di una maggior libertà di manovra per giocare la "famosa carta" della "accostata alla Russia".
Il vero nodo della questione, come si è già accennato, risiede tuttavia nell'incontro presso Feltre del 19 luglio 1943, con l'ultimo, abortito tentativo da parte del duce di ottenere da Hitler il permesso per stipulare una pace separata. Dopo quel fallimento, di cui Ragionieri coglie anche gli aspetti grotteschi (l'imbarazzo di Mussolini seduto con le gambe accavallate sul bordo di una poltrona troppo ampia e profonda) la sorte del duce era ormai segnata, come del resto quella del regime. Il precipitare della situazione era percepito anche da osservatori esterni, come l'ambasciatore nipponico Hidaka, che, allarmato per la convocazione del Gran Consiglio, offrì a Mussolini la disponibilità del suo governo, che non era in guerra con l'Urss, a compiere un passo a favore di una pace separata fra l'Asse e l'Unione Sovietica. Ormai, però, era troppo tardi: il re e i cospiratori del 25 luglio trassero le conseguenze del fallimento dell'incontro di Feltre, nonostante la promessa che - secondo Badoglio - Mussolini avrebbe fatto al re di sganciarsi dalla Germania entro il 15 settembre. Si determinò quello che l'autore definisce il "suicidio inconsapevole del regime", premessa per un armistizio che però sarebbe stato negoziato senza l'unico italiano in grado, forse, di fare accettare a Hitler il forfait dell'alleato.
Di questa tragedia tutta italiana Ragionieri fornisce, dalle premesse all'epilogo, una ricostruzione ampia, avvincente, documentata. Si può discutere, forse, se il suicidio del regime sia stato davvero inconsapevole, o se un Mussolini stanco, demoralizzato, afflitto da patologie psicosomatiche ma non per questo meno invalidanti non fosse invece sollevato dal fatto che altri, con un complotto di cui senz'altro non era all'oscuro, lo sgravassero delle sue responsabilità. Si può ritenere o no il comportamento delle truppe e dei comandi tedeschi "disumano e sprezzante" nei confronti degli italiani anche prima dell'armistizio. Si può condividere del tutto o solo in parte il suo giudizio sulle nostre forze armate in occasione dello sbarco in Sicilia: giudizio forse un po' troppo severo, che non tiene conto del ruolo di sabotaggio e di demoralizzazione svolto in accordo con gli Stati Uniti dalla mafia, che non aveva perdonato al fascismo la rigorosa repressione del prefetto Mori e che aveva trattato con gli Stati Uniti sostanziosi compensi per la propria collaborazione. Ma la ricchezza delle citazioni, l'ampiezza delle fonti memorialistiche, la passione e in certi casi il pathos delle riflessioni su una svolta epocale della nostra storia fanno di questo saggio un libro che non si può leggere distrattamente, e che, anche per lo spirito obiettivo da cui è ispirato, può costituire un sereno contributo alla crescita di una memoria condivisa della quale l'Italia non ha mai avuto bisogno come in questi ultimi anni.


 

L'introduzione di Marco Rossi:


Questo nuovo e intrigante lavoro di Ragionieri si colloca, come le altre recenti opere sulla guerra civile e l'8 settembre, sulla scia di una approfondita rivisitazione storica degli avvenimenti cruciali che, durante la seconda guerra mondiale, hanno coinvolto il destino del nostro paese.
Del resto il destino che la nazione italiana registra negli anni 1943-1945 è certamente e per molti aspetti singolare: la patria del fascismo diventa, improvvisamente, una parte seppure minoritaria delle forze cobelligeranti antifasciste, mentre un'altra mezza Italia continua la guerra con i tedeschi e i giapponesi, e questo accade mentre è ancora in corso lo stesso conflitto.
Bisogna riconoscere che, quanto meno da un punto di vista strettamente storico, queste vicende si collocano senza alcun dubbio nella sfera degli eventi eccezionali, a tal punto che, da un altro punto di vista strettamente tecnico, ma che certamente mostra aspetti involontariamente paradossali, si potrebbe anche affermare che l'Italia ha contemporaneamente perso e vinto la seconda guerra mondiale.
La frattura che emerge nella tragedia del conflitto è del resto l'espressione puntuale della divisione millenaria del popolo italiano che, almeno dalla guerra greco-gotica del VI secolo d.C., non ha più trovato un reale momento unificante se non in seguito, nella religione cristiana cattolica.
La stessa unità d'Italia del 1861, completata tra il 1866 e il 1918, almeno riguardo agli avvenimenti del risorgimento si può senza esagerare collocare nell'ambito di un progetto politico liberal-costituzionale, nutrito da una ristretta minoranza del popolo italiano, e realizzato con il determinante intervento delle due grandi potenze occidentali dell'epoca: l'impero britannico e quello francese.
L'ultima onesta e consapevole storiografia sull'argomento ha più che dimostrato come, senza l'intervento dell'Inghilterra ( e naturalmente della massoneria anglo-americana, di cui quasi tutti i protagonisti del nostro risorgimento facevano parte ) e della Francia, il geniale progetto di Cavour mai avrebbe potuto realizzarsi.
Al contrario, se invece del 2% su basi censitarie, come prevedeva lo Statuto Albertino, avessero potuto votare e liberamente e democraticamente le masse popolari cattoliche italiane, è probabile che allora Pio IX avrebbe goduto di un consenso quasi plebiscitario.
Con questo però non si intende affermare che l'unità d'Italia sia stata un male: probabilmente non avrebbe potuto essere realizzata diversamente e comunque in quegli anni non operarono attivamente reali progetti alternativi, ma bisogna pure che una nazione moderna trovi il coraggio di guardare con serenità e sincerità alle vicende della propria storia vera, lasciando ai demagoghi e ai disonesti gli strombazzamenti retorici più o meno politicamente interessati.
Anche in questa non facile prospettiva è veramente encomiabile lo sforzo dell'autore che cerca di ricostruire, utilizzando le fonti storiche e documentarie più aggiornate ed attendibili, gli ultimi anni del regime fascista, ormai segnato indelebilmente dalle drammatiche vicende della guerra.
Dalla ricostruzione puntuale di quei tragici eventi emergono, a nostro avviso, soprattutto due elementi interessanti: l'evidente non consapevolezza della reale dimensione dello scontro e di quello che era veramente in gioco da parte di tutti, ad eccezione di Roosevelt e di Stalin, che invece mostrano di comprendere perfettamente quello che stavano facendo; e quindi il sostanziale suicidio democratico del regime fascista.
Dalle pieghe più o meno drammatiche degli incontri diplomatici, dei sondaggi segreti incrociati, delle disponibilità garantite o meno dai sistemi di spionaggio, infine dalle concitate cronache che gli storici hanno ormai ricostruito e che Ragionieri utilizza efficacemente, si comprendono le varie illusioni che i vari protagonisti di allora nutrivano: Mussolini sperava di convincere Hitler ad una impossibile trattativa di pace con Stalin, in questo coadiuvato dall'ambasciatore nipponico; ma il libro di Suvorov ( 1 ) ha ormai ampiamente provato che Stalin stava preparando l'attacco alla Germania prima dell'attacco nazista, proprio per l'estate del 1941.
Hitler invece sperava da sempre in una pace con l'impero Britannico, con il quale si sentiva persino in sintonia imperiale e razziale, ma Churchill insieme a Roosevelt, nel gennaio del 1943 a Casablanca, si era impegnato ( seppure a malincuore ) ad accettare solo la resa incondizionata dall'Asse, il che equivaleva a dire la capitolazione completa, cioè la distruzione senza condizioni dei regimi fascista e nazista.
Non meno illusoria appare poi la posizione nipponica che sperava di poter combattere inglesi ed americani, lasciandosi però i sovietici come amici e neutrali; a guerra finita in Europa, nell'estate del 1945 anche Stalin si avventerà sul disastrato Giappone.
E se dovessimo valutare, in un tragico gioco degli orrori, la più strampalata delle illusioni covata tra i dirigenti dell'Asse, probabilmente la più fatale fu proprio quest'ultima dei giapponesi: infatti è evidente che nessuno può valutare che cosa sarebbe potuto accadere se l'attacco all'U.R.S.S. fosse stato scagliato contemporaneamente dai giapponesi e dai tedeschi, prima che gli Stati Uniti entrassero direttamente nel conflitto.
Lo stesso Churchill sperò, per un certo periodo, di poter distruggere il nazismo in Germania ma, in qualche modo, di non eliminare del tutto sia il fascismo che la monarchia in Italia, oltre, naturalmente, la convinzione di poter salvare completamente gli ingenti domini dell'Impero Britannico.
Ma a Casablanca, nel gennaio del 1943, quando la guerra era lungi dall'essere decisa, con le armate italo-tedesche che occupavano da Stalingrado alla Francia, dalla Norvegia alla Grecia e alla Libia, aveva dovuto impegnarsi per la resa incondizionata, cioè per una soluzione del conflitto che non avrebbe lasciato alcuno spazio per la trattativa, dunque per una guerra di distruzione politica totale dell'avversario.
Ha visto bene probabilmente Gobbi quando ha indicato nelle classi dirigenti americane e sovietiche le uniche che avevano la consapevolezza piena delle dimensioni dello scontro: " Dalla Seconda guerra mondiale sono uscite due grandi potenze egemoni su scala mondiale: è possibile che questo risultato non sia stato voluto da qualcuno e sia invece la deriva di casualità o di errori propri o degli altri? Dopo la Seconda guerra mondiale sono spariti i grandi e i piccoli imperi coloniali: è possibile che questo risultato non sia stato perseguito sistematicamente per ottenere l'unificazione del mercato mondiale o il comunismo internazionale? " ( 2 ).
E conclude: " Alexis de Toqueville aveva previsto che Russia e Stati Uniti erano destinati dalla volontà divina a reggere i destini di metà del globo. " " Insomma USA e URSS erano naturalmente portate a coalizzarsi per eliminare il vecchio imperialismo coloniale, per imporre nuove egemonie fondate ideologicamente e portatrici di due modelli economici contrapposti: il consumismo di massa e la pianificazione centralizzata " ( 3 ).
E infatti, dopo poco più di un decennio dalla fine del conflitto anche il grande impero britannico, così tanto amato e difeso da Churchill, scomparirà sbriciolandosi completamente, riducendo solo a un nostalgico ricordo l'antica e gloriosa egemonia inglese sui mercati e sui mari.
L'altro aspetto che emerge in modo inequivocabile, dal precipitare degli eventi descritti dall'Autore, è la fine del regime fascista ad opera dei fascisti stessi; conclusione che del resto risulta perfettamente in linea con la natura e la genesi del movimento politico costruito da Mussolini agli inizi degli anni Venti.
Su questo delicato argomento purtroppo le sensibilità sono ancora troppo politicizzate, nonostante la monumentale opera di Renzo De Felice ( 4 ) abbia da anni sgombrato il campo da ogni equivoco: il fascismo, nel bene e nel male, fu senz'altro un totalitarismo imperfetto da sempre, dovette in ogni caso condividere il potere con la Monarchia, con la Chiesa Cattolica e con le varie anime della società italiana che si erano fascistizzate molto superficialmente e che comunque spesso riproponevano le diverse ( e di frequente, contrastanti ) esigenze dell'Italia liberal-democratica in seno al regime e al partito fascista.
Chi continua a dare un'immagine diversa del fascismo, monolitica e priva del consenso di massa che godette almeno dal 1929 al 1940, lo fa per esigenze strumentali e politiche facilmente individuabili e che possono essere riportate alla stringente necessità politica che ebbero i partiti antifascisti del dopoguerra, quando si pose il problema di trovare un punto ideologico d'intesa, una comune Weltanschauung sulla quale fondare la nuova Costituzione e una specie di nuovo patto di fondazione della nazione, uscita distrutta dalla guerra.
Motivi certamente comprensibili sul momento, ma che comunque hanno poco a che fare con la realtà della verità storica, la quale ci presenta piuttosto la costruzione a posteriori del Mito della Resistenza, tanto per citare un'altra importante opera di Gobbi ( 5 ), e l'incontrovertibile verità che il fascismo nella notte del 25 luglio del 1943 decise, a maggioranza, di chiudere la propria esperienza politica; in altre parole il regime fascista democraticamente, a maggioranza del suo più prestigioso organo istituzionale, appunto il Gran Consiglio del Fascismo, decise di suicidarsi.
Nessuna armata partigiana, né rossa né bianca, ebbe il ben che minimo ruolo in questa vicenda, che invece si circoscrive perfettamente nell'ambito di un regime plurale e composito, il quale aveva perduto progressivamente il consenso delle sue varie componenti propria a causa della disastrosa guerra.
Ormai gli Alleati erano sbarcati nel territorio nazionale, la Sicilia era perduta e le forze armate dimostravano di non essere in grado di fronteggiare ancora il nemico, questo dopo tre anni di lutti e di sconfitte, con la perdita completa dell'impero coloniale.
I libri seri sull'argomento ( e non quelli di propaganda politica ) mostrano un Mussolini che non aveva idea di come uscire dalla crisi e che forse, anche per questo, non ha contrastato, come certo avrebbe potuto, la decisione dei suoi compagni di partito: perché è evidente che la Germania non avrebbe potuto accettare una resa dell'Italia senza condizioni, che avrebbe portato immediatamente le truppe alleate al confine alpino, e del resto la conquista irreparabile del territorio nazionale da parte degli Anglo-Americani doveva in qualche modo spingere i dirigenti italiani a fare qualcosa per salvare il salvabile, in una situazione oggettivamente disperata.
Quando la stessa situazione militare si presenterà in Germania, nel marzo del 1945, e gli Anglo-Americani e i Russi metteranno piede nel suolo nazionale tedesco, allora anche nella classe dirigente nazista vedremo gli stessi tradimenti, le consuete trattative vergognose e intrighi di ogni genere.
Quelle tragiche vicende e molti vergognosi avvenimenti di quell'anno, e in particolare di quell'estate, rimangono comunque tra le pagine più dolorose e buie della nostra storia, ma è importante per la coscienza di un popolo libero e democratico avere il coraggio di guardare in faccia la realtà, è fondamentale che gli Italiani conoscano la verità, anche quando questa presenta un volto sgradevole, ben lontano dagli strombazzamenti retorici della propaganda politica.


NOTE

1) Viktor Suvorov, Stalin, Hitler la rivoluzione bolscevica mondiale, Spirali, Milano, 2000.
2) Romolo Gobbi, Chi ha provocato la Seconda Guerra Mondiale? - Una revisione nel segno della complessità, Franco Muzzio Editore, Padova, 1995, pp. 1-2.
3) Ibidem.
4) L'opera fondamentale di Renzo De Felice è naturalmente la biografia di Mussolini stampata da Einaudi, Torino, in varie edizioni, anche economiche; lavoro che, ovviamente, ci presenta la più completa ricostruzione storica delle vicende italiane durante il regime fascista e non semplicemente la biografia del suo capo e fondatore.
5) Cfr. Romolo Gobbi, Il mito della resistenza, Rizzoli, Milano, 1992; Una revisione della resistenza - Al di là delle verità "ufficiali" , Bompiani, Milano, 1999.