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La mia storia della guerra del Vietnam di Mario Ragionieri
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Scritto da Mario Ragionieri   
Sabato 18 Gennaio 2014 alle ore 17.00, presso la libreria Centrolibro in Piazzale della Resistenza 2/b a Scandicci (FI), verrà presentato il nuovo volume di Mario Ragionieri intitolato "La mia Guerra del Vietnam".
Marco Gammannossi condurrà l'incontro al quale, oltre all'autore, saranno presenti il Prof. Enrico Nistri e il giornalista di Canale 5 Pierangelo Maurizio.

Pubblichiamo di seguito la prefazione al libro scritta dallo storico Enrico Nistri.

A chi gli chiedeva se non fosse impensierito dalla bocche da fuoco in mano ai guerriglieri di Ho Chi Minh, il colonnello Charles Piroth, mutilato di guerra e vicecomandante delle forze francesi a Dien Bien Phu, era solito rispondere che si trattava dell'ultima delle sue preoccupazioni. “Nessun cannone Vietmihn – spiegava l'ufficiale – riuscirà a fare fuoco tre volte prima di essere distrutto dalla mia artiglieria.”
Quando, poche settimane dopo, le forze di Ho Chi Mihn ebbero annientato i due terzi delle sue bocche da fuoco in posizioni chiave, Piroth ebbe ancora meno esitazioni. All'alba del 15 marzo 1954 strappò con i denti la sicura di una bomba a mano e saltò in aria con essa. La sera prima aveva ammesso alla mensa ufficiali: “Sono completamente disonorato”; ma in realtà con il suo gesto sarebbe stato uno degli ultimi uomini bianchi a uscire con onore, o almeno senza disonore, dalle tante guerre del Vietnam.
Dopo di lui militari e politici, ambasciatori e funzionari, giornalisti e conduttori televisivi ne avrebbero eguagliato gli errori, nessuno il tragico coraggio. Molti di essi prima o poi ne hanno condiviso l'onestà di ammettere i propri sbagli, ma nessuno ha avuto la forza di strappare, se non la linguetta della sicura di una bomba a mano, almeno la spina di una delle tante televisioni che, diffondendo le immagini della guerra com'è, non come si vorrebbe che fosse, crearono il clima psicologico favorevole all'abbandono dell'Indocina ad alcune tra le più sanguinarie dittature che il mondo abbia conosciuto.
A suggerirmi queste e tante altre considerazioni è stata la lettura dell'ampio e documentatissimo volume che Mario Ragionieri, con un'imprevedibile transumanza dalle alture appenniniche in cui era ambientato il suo ultimo libro sulla campagna d'Italia alle risaie del Sud-Est asiatico, ha dedicato alla guerra del Vietnam. Ma forse sarebbe meglio dire alle guerre del Vietnam: ai tanti conflitti che hanno insanguinato questa nazione dalla crisi del colonialismo francese a quell'infausto 30 aprile 1975 in cui le truppe sudvietnamite, abbandonate dagli Stati Uniti, furono costrette a capitolare agli invasori vietmihn.
Queste guerre, e in particolare l'ultima, come ricorda Ragionieri nelle pagine, un po' ironiche un po' “proustiane” della prefazione, segnarono profondamente non solo la vita politica ma il costume, la sensibilità, lo spirito, il morale (e a volte l'immoralità) di più di una generazione, sulle due sponde dell'Oceano. Chi ha superato almeno due volte gli “anta” ricorda come l'opposizione alla guerra del Vietnam abbia aperto la strada nel mondo giovanile a quello che si potrebbe definire un “antiamericanismo americanista”, in cui gli stessi ragazzi che nei cortei sfilavano intonando slogan come “Yankee go home” ostentavano nei gusti musicali, nell'abbigliamento, nel taglio (o nel non taglio) dei capelli l'acquiescenza a mode di matrice in prevalenza statunitensi.
La storia di questa guerra che le forze armate statunitensi persero perché, per la prima volta nella storia, non fu permesso loro di vincerla, è ricostruita da Ragionieri in un racconto vivido e appassionante, ricco di colpi di scena e in specie di personaggi a forti tinte. Spicca fra tutti naturalmente Ho Chi Mihn, di cui l'autore traccia un ritratto attendibile, anche se bisogna ricordare che il vincitore della guerra del Vietnam fu uno dei tanti rivoluzionari del terzo mondo figli della Sorbona e del Quartiere Latino, che ritorsero contro l'Occidente e la cultura occidentale in cui si erano formati quelle idee di libertà e d'indipendenza che avevano assimilato in Europa, per instaurare poi regimi totalitari legati a doppio filo all'imperialismo moscovita. Fu un leninista coerente, che utilizzò il massacro degli oppositori come strumento dialettico, il terrorismo come pratica igienica, la menzogna come prassi quotidiana, si trattasse di promettere ai contadini le terre che poi sarebbero state nazionalizzate o di accettare formalmente i principi della convenzione di Ginevra salvo torturare gli aviatori statunitensi catturati.
In realtà, la “grandezza” di Ho Chi Mihn risalta soprattutto dal confronto con la mediocrità o l'isolamento dei suoi avversari: l'ascetico Diem, incompreso “incrocio fra un monaco e un mandarino”, il colonnello De Castries, aristocratico dal profilo romano che la Francia mandò a combattere una guerra ormai perduta; l'astuto Chu En-lai e l'ambiguo Kissinger, in equilibrio instabile fra ambizioni di potere e timore di inimicarsi i colleghi liberal dell'università di Harvard, l'ingegneresco Westmoreland e il saccente McNamara, convinto che una guerra si potesse programmare come una catena di montaggio di quella Ford della quale era stato direttore generale. Per tacere del fragile, incerto, oscillante Johnson, tradito dagli uomini di un clan Kennedy che l'aveva sempre trattato da parente povero.
Particolare spazio è occupato nel volume di Ragionieri dalla denuncia degli errori statunitensi. È difficile dargli torto, perché gli abbagli degli Usa in un trentennio di presenza e di intervento più o meno diretto nel Sud-Est asiatico furono senz'altro molti. Cominciarono quando, in odio al colonialismo degli alleati francesi, favorirono la crescita del movimento Vietmihn; proseguirono quando, dopo aver appoggiato la Francia in funzione anticomunista nella guerra d'Indocina, le negarono l'appoggio militare decisivo che avrebbe potuto ribaltare la situazione a Dien Bien Phu. Raggiunsero l'apice quando, costretti a intervenire in sostituzione dei francesi a sostegno del Vietnam del Sud, non furono in grado di avere la meglio su un movimento terroristico e di una potenza militare di terzo rango proprio negli anni in cui riuscivano a mandare un uomo sulla Luna.
Il fatto che molti di questi errori fossero dovuti a buone intenzioni non toglie nulla alle loro conseguenze deleterie. Tanto per fare un esempio, fu per colpa del moralismo statunitense se città come Saigon e Danang si trasformarono in grandi capitali del vizio: troppo puritane per ammettere la prostituzione ufficiale, le autorità Usa finirono per favorire quella libera, che contribuì a un processo di generalizzata urbanizzazione e disgregazione della società sudvietnamita. Più realisticamente, i francesi avevano organizzato un Bmc, Bordel militaire de campagne, che aveva il merito di preservare i combattenti da pericolosi contatti con la popolazione locale: è noto come alla base della diffusione della droga tra le truppe statunitensi furono spesso prostitute legate ai Vietcong, interessate alla disgregazione fisica e morale degli avversari.
Occorre aggiungere, però, che agli errori dei politici e dei militari si aggiunse un fenomeno senza precedenti nella società statunitense: il crollo di quei valori tradizionali dell'America Wasp (white, anglo-saxon, protestant) che bene o male aveva consentito la tenuta morale dei soldati statunitensi in due conflitti mondiali e ancora nella guerra di Corea. Quei valori, quell'America, caddero sotto i colpi della pedagogia permissiva dei vari dottor Spock e l'influenza di un nuovo ceto “massmediologico” di intellettuali liberal o radical, che sull'opposizione al conflitto costruirono spregiudicatamente le loro fortune. Tanto spregiudicatamente da divulgare documenti riservati, falsificare i risultati dei sondaggi d'opinione, facendo passare per avversari della guerra coloro che avrebbero voluto fosse condotta con maggior efficacia, diffondere in tutto il mondo la foto di un guerrigliero liquidato dai servizi segreti di Saigon, salvo scivolare elegantemente sulle migliaia di missionari, civili europei, funzionari di Saigon sterminati dai vietcong nel loro terrorismo quotidiano.
Si deve a loro se nel 1968 sudvietnamiti e americani parvero gli sconfitti della proditoria offensiva vietcong del Tet, che invece fu ritenuta dagli stessi Vietmihn un fallimento, viste le pesantissime perdite riportate; se in pochi seppero che al momento della tregua del '73 l'esercito sudvietnamita controllava il 75 per cento del territorio e l'85 per cento della popolazione, per cui la “vietnamizzazione” del conflitto proposta da Nixon era tutt'altro che un'utopia; se nell'opinione pubblica europea (compresi certi ambienti della destra radicale, a partire dal movimento Jeune Europe) prevalse l'immagine romantica del guerrigliero vietcong che combatte con armi rudimentali contro lo strapotere militare Usa, mentre fin dall'inizio della lotta contro i francesi gli uomini di Ho Chi Mihn e di Giap furono abbondantemente riforniti di armi dai francesi.
Il fatto è che in Vietnam non furono i guerriglieri a sconfiggere l'America. Fu l'America – come già la Francia in Indocina e in Algeria – a sconfiggere se stessa. Non furono le armi dei Viet a sconfiggere gli Usa: furono le fotocopie trafugate e il successivo linciaggio morale di Nixon, l'unico politico che forse avrebbe potuto porre termine decorosamente al conflitto. Non furono le armi dei seguaci di Giap, ma le bandiere di Hanoi inalberate impunemente dalle varie Jane Fonda nelle loro marce della pace, mentre per molto meno un poeta come Ezra Pound vent'anni prima era andato a un passo dalla forca. Né il fatto che molti di questi intellettuali abbiano, negli anni successivi al termine del conflitto, recitato l'autocritica è motivo di grande consolazione, se non altro perché nessuno di loro ha avuto il buon gusto di seguire l'esempio del colonnello Piroth.

Enrico Nistri