Skip to content
You are here:Home arrow Articoli arrow Libri e Riviste arrow L'Italia Fascista 1933-1940 di Mario Ragionieri


L'Italia Fascista 1933-1940 di Mario Ragionieri
(0 voti)
Scritto da Mario Ragionieri   
E' uscito, pubblicato dalla casa editrice Ibiskos, il primo volume di Mario Ragionieri dedicato alla storia di Italia durante il ventennio fascista.
Pubblichiamo di seguito la prefazione al libro scritta dallo storico Enrico Nistri.

 
Nella sua ormai ampia e quasi decennale opera di ricostruzione storica dell’esperienza fascista, Mario Ragionieri aveva sino ad oggi prediletto i momenti critici, quelli che hanno segnato la nascita, la crisi, il crollo del regime. La marcia su Roma e il consolidamento del fascismo, sino al Concordato col Vaticano, il 25 luglio e l’8 settembre, la guerra civile e l’esperienza dell’Italia nel corso della seconda guerra mondiale sono stati le principali tappe di una ricerca storica che si è sviluppata senza seguire un ordine cronologico lineare, ma, accompagnando gli interessi e le curiosità intellettuali dell’autore, è cresciuta gradualmente di spessore e al tempo stesso è venuta guadagnando in rigore documentario e in finezza interpretativa. Il ciclo della ricerca è ormai prossimo a chiudersi con quest’ultima opera, dedicata a quelli che l’autore definisce gli anni “più tranquilli” del regime mussoliniano. Si tratta del periodo compreso fra il 1933 e il 1940 in cui il fascismo, consolidato dal Concordato e non ancora destabilizzato dai contraccolpi della seconda guerra mondiale, raggiunse effettivamente, almeno fino al 1937, il massimo del consenso interno e il culmine della credibilità internazionale.
Parlare di anni “tranquilli” per un periodo che vide l’Italia impegnata in un conflitto coloniale dagli esiti inizialmente non scontati e in una guerra civile straniera dalle pesanti ripercussioni internazionali può sembrare un paradosso. Ma in realtà, vuoi per la rapida conquista dell’impero del Negus, vuoi perché al lungo e sanguinoso conflitto spagnolo i nostri militari partecipavano, almeno ufficialmente, solo come volontari, il paese percepì buona parte di questo decennio, almeno fino al 1938 e agli accordi di Monaco, come un periodo di relativa tranquillità. Con una diversa espressione, Renzo De Felice ha definito un arco di tempo pressoché analogo (dal Concordato al 1936) come gli anni del consenso. La definizione, com’è noto, è stata pesantemente criticata soprattutto dalla sinistra comunista, ma se lo stesso Partito comunista d’Italia in esilio, come Ragionieri ricorda in questo volume, cercò in questi anni un riavvicinamento, se non col fascismo, con i fascisti, “fratelli in camicia nera” (e a questo fine pubblicò l’appello intitolato Per la salvezza dell’Italia riconciliazione del popolo italiano! sul periodico “Lo Stato Operaio” nell’agosto del 1936), evidentemente ci doveva essere qualche motivo. Così come qualche motivo dev’esserci stato se anche nel dopoguerra, nonostante l’istituzionalizzazione e liturgizzazione dell’antifascismo, sarebbe a lungo sopravvissuta quella che è stata definita una “memoria indulgente” nei confronti del regime: non solo da parte dei moderati, ma, paradossalmente, degli stessi comunisti. Non si spiegherebbe altrimenti perché Togliatti, a differenza dei socialisti, avrebbe aperto le porte del suo partito agli ex fascisti, più o meno delusi e pentiti, utilizzando uno strano personaggio come Stanis Ruinas.
Gli stessi orrori della guerra, evidentemente, non erano bastati a cancellare il ricordo delle realizzazioni sociali, architettoniche, urbanistiche del regime presso generazioni di ex avanguardisti o balilla che avevano per la prima volta visto il mare grazie ai treni popolari, che avevano imparato a nuotare nelle piscine della Gil, o di operai che avevano finalmente potuto accedere alla pensione – un tempo privilegio di ferrovieri e dipendenti pubblici – grazie alla nascita dell’allora Infps, l’Istituto nazionale fascista di previdenza sociale.
Si potrebbe obiettare alla periodizzazione di Ragionieri che il consenso più massiccio al regime cominciò a sgretolarsi già prima del 1940, dopo la proclamazione dell’Impero, parte per effetto della guerra di Spagna, parte della legislazione razziale e più in generale dell’avvicinamento alla Germania nazionalsocialista. Dopo il 1937 gli anni per gli italiani furono meno “tranquilli” e nel ’38 insieme al trionfo di Monaco Mussolini dovette incassare il ben più pesante scacco dell’Anschluss. Anche sotto questo profilo, però, come emerge anche dallo studio di Ragionieri, la realtà è assai meno univoca. La guerra di Spagna deluse, è vero, i fascisti di sinistra alla Vittorini, che comunque, anche negli anni successivi, avrebbero partecipato alla campagna contro il “lei” e persino, durante la guerra, ai convegni degli intellettuali dell’Asse a Weimar, ma consolidò il consenso cattolico. E il dissenso dalle leggi razziali, comunque tutt’altro che paragonabili pur nella loro odiosità alla legislazione nazista, fu meno diffuso di quanto si possa credere, con un futuro storico esponente della Democrazia cristiana che firmò il manifesto per la difesa della razza e un futuro segretario del Partito radicale che partecipò nel 1939 a un convegno su “Razza e diritto” a Weimar. Talune innovazioni introdotte dal regime nell’intento di creare “l’uomo nuovo”, nell’ambito – come scrive Ragionieri – di una vera e propria “rivoluzione culturale”, raffreddarono gli entusiasmi e in certi casi suscitarono il dissenso di parte del ceto medio, ma guadagnarono al regime un consenso dei ceti popolari e di molti giovani intellettuali che vedevano nella svolta “antiborghese” del fascismo la premessa per una rivoluzione sociale sempre attesa, dagli anni del primo dibattito corporativo e della guerra d’Etiopia, ma sempre rinviata. Può sconcertare o far sorridere che le discriminazioni nei confronti degli ebrei o l’imposizione del “voi” al posto del “lei”, o la stessa riforma Bottai della scuola, con l’introduzione del lavoro manuale, avallassero speranze di questo genere ancora nei primi anni Quaranta. Ma, anche a lasciare da parte gli elogi di Michelangelo Antonioni alla “perfetta euritmicità” di una pellicola di propaganda nazista come l’Ebreo Süss, la recensione di Guido Piovene a Contra Judaeos di Telesio Interlandi o le tesi di Ugoberto Alfassi Grimaldi su La guerra come strumento di rinnovazione delle gerarchie dei popoli, per molti giovani di estrazione operaia educati nelle organizzazioni fasciste la polemica antiborghese del regime poteva significare la premessa di trasformazioni sostanziali. Non più “tranquilli”, per l’incombere della crisi internazionale, anche i tardi anni Trenta continuarono a essere anni di un consenso diverso, tendente a slittare da quella piccola e media borghesia che, nonostante l’avversione di Mussolini, aveva fornito al regime i suoi quadri, a ceti proletari su cui non aveva ancora fatto presa la propaganda comunista.
A parte tali questioni di periodizzazione, questo volume colpisce per la capacità di cogliere alcuni aspetti salienti degli anni in questione, attraverso una ricerca – com’è prassi ormai consolidata di Ragionieri – fondata su una lettura diretta dei documenti, della memorialistica e delle testimonianze coeve, piuttosto che filtrata attraverso le stratificazioni storiografiche. L’autore coglie con molta lucidità fin dalle pagine introduttive il carattere ambivalente di questi sette anni: anni di massimo splendore per il regime, ma anche preparatori – a partire dalla stessa guerra d’Etiopia – della sua futura catastrofe. Anche per questo motivo, forse, un peso preponderante è attribuito in questo volume ai fattori di ordine etico-politico e politico-diplomatico o militare, anche perché l’autore rinvia l’analisi delle grandi scelte economiche e sociali a un prossimo volume che, chiudendo veramente il ciclo delle sue ricerche sul regime, dovrebbe trattare proprio il quadriennio cruciale compreso fra il ’29 e il ’33. Resta il fatto che buona parte di un consenso protrattosi fino alla fine del decennio il regime la dovette alle sue scelte di carattere socio-economico, che gli permisero di ridimensionare l’impatto della grande crisi del ’29 attraverso istituti di tipo solidaristico, come la settimana lavorativa di quaranta ore, il miglioramento delle assicurazioni sociali con la nascita delle grandi mutue pubbliche, l’intervento statale nell’economia con l’Iri e l’Imi. Negli ambiti trattati con maggior ampiezza, comunque, la sintesi di Ragionieri raggiunge ottimi livelli, per esempio nella ricostruzione della guerra d’Etiopia, delle sue motivazioni politiche, della sua preparazione diplomatica, dei suoi sviluppi militari, del suo impatto sull’opinione pubblica nazionale.
L’autore critica il mito, tipico della storiografia marxista, di una guerra intrapresa come diversivo alla recessione economica in atto, visto che la crisi era meno grave che altrove e che comunque, nel 1935, stava già rientrando. Nega pure che sia servita ad arginare il malcontento presente nel paese, visto che all’epoca il regime godeva di un largo consenso, che un eventuale insuccesso avrebbe semmai potuto compromettere. Basandosi su una documentazione di prima mano, come la relazione del diplomatico Suvich, dimostra che l’Inghilterra, a differenza della Francia, si opponeva a un ampliamento dei nostri possedimenti in Africa orientale anche perché, sentendo “rallentarsi sempre più i vincoli coi suoi domini e possedimenti nelle altre parti del mondo, si attacca con sempre maggiore energia all’Africa”; al tempo stesso, però, spiega che Mussolini si decise per l’impresa etiopica in quanto le condizioni diplomatiche non sarebbero mai state così favorevoli. L’Italia, infatti, poteva contare su un atteggiamento benevolo da parte della Francia di Laval e, visto che la Germania non aveva ancora effettuato il riarmo, non aveva ancora bisogno di guardarsi le spalle alla frontiera del Brennero. Inoltre Ragionieri dimostra, sulla base anche in questo caso di un’ampia documentazione, che in un primo tempo “per Mussolini la guerra doveva servire non a fare scomparire l’Etiopia dalla carta geografica, ma a costringere il negus e con lui l’Inghilterra e la Società delle Nazioni a venire a patti e ad accogliere le sue richieste e cioè il possesso diretto di tutte le regioni periferiche dell’Etiopia e il controllo del nucleo centrale amarico”. Qualcosa di diverso da una mera guerra di conquista: forse solo qualcosa di più di un tentativo di forzosa interpretazione “autentica” del controverso trattato di Uccialli.
Un piccolo capolavoro è il paragrafo dedicato all’incidente di frontiera che precedette l’inizio delle ostilità in Etiopia. Ragionieri dimostra che lo scontro di Ual-ual fu qualcosa di più di un mero pretesto, visto che vi perirono secondo stime attendibili almeno duecento uomini. Sostanzialmente equilibrato è anche il suo giudizio sull’impiego dei gas da parte delle nostre truppe. I termini della questione sono ormai noti anche al grande pubblico: durante la guerra d’Etiopia, l’Italia era stata accusata pubblicamente di aver fatto uso di questo tipo di arma, impiegato da ambo gli schieramenti durante il primo conflitto mondiale, ma successivamente messo al bando da un trattato internazionale sottoscritto dall’Italia nel 1928. Il governo fascista negò gli addebiti, rinfacciando anzi a Francia e Inghilterra di aver venduto al governo etiopico proiettili esplosivi vietati dalle convenzioni internazionali (le famigerate pallottole dum dum) e la realtà sarebbe rimasta a lungo coperta dalla polvere degli archivi militari. Solo all’inizio di questo millennio l’interessamento di storici militari come Giorgio Rochat e l’apertura, una decina di anni fa, degli stessi archivi della Difesa, ha fatto emergere la fondatezza delle accuse, nonostante le proteste di un Indro Montanelli che, già volontario di guerra in Etiopia, al comando di un reparto di ascari, non aveva mai avuto notizie dell’impiego di aggressivi chimici.
Ragionieri riconosce il fatto e il misfatto, ormai documentato da fonti inoppugnabili, ma lo ridimensiona non tanto nella sua gravità morale (parla anzi di una “patente d’infamia”) quanto nella sua efficacia ai fini della vittoria finale. Occorre aggiungere che, con ogni probabilità, il governo italiano non si riteneva tenuto a rispettare le convenzioni internazionali contro un nemico per cui le convenzioni di Ginevra e dell’Aja erano lettera morta. L’Etiopia, infatti, non solo faceva a sua volta uso di armi proibite, ma praticava sistematicamente la mutilazione, l’evirazione, in certi casi l’impalamento dei nemici catturati e si abbandonava spesso a spietate ritorsioni contro i civili, come il massacro degli operai del cantiere Gondrand. In realtà l’uso spietato di ogni strumento di guerra è stata caratteristica di pressoché tutti i conflitti condotti in Africa dalle potenze europee, anche quelle meno inclini dell’Italia ad autoflagellarsi per il proprio passato coloniale, magari in base all’aurea massima right or wrong, my country.
Documentata è anche la ricostruzione dei rapporti italo-germanici, improntati inizialmente da una franca avversione, legata non solo alla questione austriaca, ma all’istintiva antipatia per Hitler di Mussolini: un Mussolini che il 6 settembre 1934, in un discorso a Bari, a proposito del razzismo tedesco sosteneva che “trenta secoli di storia ci permettono di guardare con sovrana pietà talune dottrine di oltr’Alpe, sostenute dalla progenie di gente che ignorava la scrittura, con la quale tramandare i documenti della propria vita, nel tempo in cui Roma aveva Cesare, Virgilio e Augusto”. Ma ancora più ampia è la ricostruzione dei larghi consensi internazionali di cui il regime e soprattutto Mussolini beneficiarono soprattutto durante la prima metà degli anni Trenta. Non si tratta naturalmente di una documentazione inedita o poco nota (più di trent’anni fa De Felice fu attaccato, nel suo volume sugli anni del consenso, per averla utilizzata). Merito di Ragionieri è però d’inquadrare il consenso estero a Mussolini all’interno della vasta crisi non solo economica, ma anche morale e culturale che caratterizzò l’intero Occidente a partire dal 1929. Mussolini non ottenne soltanto gli elogi di statisti conservatori (basti pensare al citatissimo giudizio di Churchill), ma anche e forse soprattutto di intellettuali e politici di sinistra o comunque “non conformisti”: basti pensare a George Bernard Shaw o a Emmanuel Mounier, ma anche, in America, agli elogi di riviste come “Fortune” o “Nation” e alle simpatie dello stesso Roosevelt. Giocava su queste scelte, a parte alcuni successi del regime in campo tecnico e organizzativo – dalle crociere atlantiche al nastro azzurro del “Rex” - la diffusa sfiducia nella capacità delle democrazie liberali a fronteggiare la grande crisi, la convinzione che il fascismo potesse rappresentare una “terza via” fra capitalismo e comunismo e anche più d’una analogia fra il corporativismo e il new deal. Non si trattava quindi di un mero fenomeno “cartaceo”, anche se – come ricorda Ragionieri - la stampa statunitense contribuì alla fortuna mediatica internazionale di Mussolini, salvo provocarne la “sfortuna” quando, a partire dalla guerra d’Etiopia, gli interessi statunitensi e quelli italiani avrebbero finito per divergere. Lo stesso atteggiamento del regime fascista nei confronti degli Stati Uniti fu tutt’altro che univoco: all’anticomunismo di vasti settori ostili alla “demoplutocrazia transoceanica” si opponeva una vena di simpatia nei confronti degli americani, “popolo giovane”, che ancora nel 1936 induceva il figlio del duce, Vittorio Mussolini, a indicare nella scuola cinematografica statunitense un modello da imitare.
Variegata è anche la ricostruzione dei rapporti fra Mussolini e l’odiosamato Vittorio Emanuele III, cui il duce riconosceva almeno due virtù, “scarsa impressionabilità” e buon senso, ma di cui – secondo Ragionieri – aveva deciso la graduale estromissione dal 1936, quando la sua autorevolezza di fondatore dell’Impero accentuò in lui una pericolosa sensazione di onnipotenza. Onnipotenza non da poco, se arrivò a dichiararsi convinto che per decretare l’abolizione della monarchia sarebbe bastata la mobilitazione di due province tradizionalmente repubblicane, come Ravenna e Forlì, o anche solo “l’affissione di un manifesto”. Com’è noto, invece, a Vittorio Emanuele non sarebbe stata necessaria nemmeno l’affissione di un volantino per decidere l’abolizione del fascismo, sia pure in una contingenza resa estremamente critica dal precipitare della situazione militare.
Molto accurata è anche la ricostruzione dei rapporti fra il regime e il Vaticano. Ragionieri enfatizza forse un po’ troppo la tendenza “all’eresia” di Mussolini, che negli ultimi mesi della sua vita si sarebbe riaccostato alla fede, e i contrasti fra cattolici e fascismo, ma fa bene ad attribuire tali contrasti non tanto alle leggi razziali, quanto al cronico contenzioso sull’Azione Cattolica e sulle altre associazioni collaterali e anche a quella “rivoluzione culturale” che il fascismo tendeva a perseguire e che aveva come obiettivo, per ovvii motivi, soprattutto le giovani generazioni. Non senza preveggenza, il duce – come riferiva Ciano nel suo diario – scorgeva nell’opera svolta da queste organizzazioni “un tentativo di costruire un vero e proprio partito politico, che prevedendo ore difficili per il fascismo, vuol essere pronto a raccogliere la successione”, tanto che la sua irritazione alla fine del 1937 si diceva “ pronto a spolverare i manganelli sulla groppa dei preti”. Dal canto suo la Chiesa non apprezzò l’avvicinamento dell’Italia alla Germania nazista e quella parte della legislazione antiebraica, che di fatto costituiva un vulnus al Concordato, in particolare l’articolo 6 del decreto legge 17 novembre 1938 che negava effetti civili ai matrimoni, contratti in Chiesa, fra cristiani ed ebrei (per la verità, la Santa Sede era riuscita a sventare l’approvazione di un ulteriore articolo, che avrebbe punito alla stregua del concubinato il matrimonio di un ebreo, anche se convertito, con un “gentile”). Ma alcuni aspetti del razzismo fascista, per esempio – per usare le parole di Ragionieri – la sua “moderata azione antisemita sul piano delle minorazioni civili”, non erano invise al Vaticano, così come non fu invisa al mondo cattolico la legislazione volta a sfavorire il fenomeno del “madamismo”, ovvero del concubinato fra italiani e indigene nei territori dell’Impero. Ancora nei primi anni Sessanta, nelle dispense di un corso di aggiornamento per professori di scuola, un prestigioso storico cattolico come Gaetano De Rosa ascriveva l’impegno a prevenire il meticciato fra i pochi meriti del razzismo fascista: sintomo di come, nell’arco di mezzo secolo, la sensibilità in materia sia profondamente cambiata. Anche un prelato come il cardinale Elia Dalla Costa, che il 9 maggio 1938, in occasione della visita di Hitler a Firenze, aveva fatto sprangare porte e finestre dell’arcivescovado per esprimere il suo dissenso dal dittatore tedesco, nella pastorale di Pasqua dell’anno successivo, quindi dopo le leggi razziali, non aveva rinunciato a sottolineare il pericolo spirituale costituito dagli acattolici e di ricordare “l’opera esiziale” svolta spesso dagli israeliti “non solamente contro lo spirito della Chiesa, ma anche a danno della convivenza civile”: atteggiamento, per altro, che non gli avrebbe impedito un lustro dopo di organizzare una provvidenziale rete di soccorsi agli “esiziali” israeliti minacciati dalla Gestapo.
Com’è sua consuetudine, Ragionieri arricchisce questo volume sia di ampie citazioni di documenti storici, sia di un’appendice in cui mette a fuoco alcuni argomenti che per esigenze di brevità non ha voluto trattare nel corpo del testo. Per quanto riguarda quest’ultima, merita particolare attenzione la messa a punto relativa alla mancata alleanza tra Roma e Parigi, che, attraverso un’intesa fra l’addetto militare francese Gamelin e Badoglio, avrebbe potuto prevedere la collaborazione fra le due nazioni per contenere l’espansionismo tedesco in Austria, prevenendo l’Anschluss. L’intesa che era venuta maturando e che la successiva evoluzione (o involuzione) delle relazioni internazionali avrebbero resa impossibile prevedeva fra l’altro un attacco congiunto alla Germania, che i francesi, con l’appoggio di reparti italiani, avrebbero dovuto muovere partendo dalla frontiera renana, e gli italiani, in collaborazione con la Jugoslavia, dalla Carinzia e dalla Stiria. La nostra politica estera, com’è noto, seguì un’altra strada e Mussolini, anche per le ipocrite reazioni al nostro intervento in Etiopia da parte di nazioni che avevano partecipato ben più massicciamente di noi al bottino coloniale, finì per accordarsi col dittatore tedesco, che ancora nel 1934 riteneva un “barbaro”. Eppure, anche se la storia non si fa con i se e con i ma, sarebbe interessante immaginare quale sarebbe stato il futuro dell’Italia e dell’intera Europa se gli accordi italo-francesi fossero davvero divenuti operativi e l’espansionismo germanico fosse stato fermato in tempo.
 
Enrico Nistri